Tra
Neolitico finale e Calcolitico (3300 - 2500 a.C. circa)[1]
I primi esseri umani che si insediarono nell'altopiano
basaltico di Abbasanta[2] trovarono un ambiente naturale ancora intatto,
caratterizzato da fitti boschi di quercia, da compatte formazioni minori di
altre essenze arboree e da folta vegetazione a portamento arbustivo. Nelle
depressioni del suolo a copertura rocciosa, ristagni d'acqua piovana
costituivano aree paludose, alcune anche notevoli, mentre in diversi siti
sgorgavano sorgenti che affiorando dagli strati sotterranei alimentavano
ruscelli provenienti dalla fascia pedemontana del Montiferru. Questo paesaggio
primordiale dava protezione e nutrimento a numerosi animali, terrestri e
volatili: di alcuni, ormai rari o non più presenti localmente, son rimaste
vaghe ed esigue tracce nella memoria popolare solo a livello toponomastico.[3]
Fu questo il periodo in cui sorsero i più antichi
villaggi[4] del territorio, sparuti gruppi di rozze capanne, realizzate con un muretto a secco di basamento ed una copertura di frasche e fasci d'erba sapientemente posti in opera.
Vicinissime le coltivazioni difese, da possibili incursioni e devastazioni da
parte di animali vaganti, con rudimentali recinzioni di fronde spinose e pietre
raccolte dal terreno circostante.
In tali precarie abitazioni, poco più che rifugi, la vita scorreva stentata e
faticosa[5], probabilmente secondo una divisione di compiti la
cui gravosità era legata al sesso, all’età o alle condizioni di salute. Questi
primi abitanti utilizzavano strumenti ed armi di pietra, nella costruzione dei
quali, praticamente con l’esperienza acquisita e affinata da numerose
generazioni, avevano raggiunto una grande conoscenza e una notevole capacità
manuale di lavorazione. Attrezzi di uso comune, ai quali era richiesta
principalmente una buona funzione percussiva, venivano ricavati generalmente
scegliendo, adattando e levigando pezzi di basalto; mentre dove era necessario
ottenere margini affilati o punte acuminate si faceva ricorso alla selce e
particolarmente all’ossidiana, roccia effusiva a pasta vetrosa, vero e proprio
“oro neroˮ di quelle popolazioni primitive, proveniente dal Monte Arci.
Soprattutto quest'ultima ancora oggi, sotto forma di schegge e frammenti
irregolari, si rinviene di tanto in tanto casualmente sul terreno durante il
lavoro agricolo negli orti e nei vigneti, testimoniando sia l'operosità
quotidiana e la presenza nell'altopiano degli antichi agricoltori-allevatori e
sia i loro spostamenti nell'esercizio della caccia e nella raccolta di quanto
l'ambiente offriva spontaneamente.
Di tutta la produzione umana del neolitico finale, tolti gli
oggetti di uso comune in pietra, i frustoli di ossidiana e, ove presenti, i
cocci di una semplice terracotta, quasi nulla è arrivato sino al giorno d'oggi;
il tempo, salvo qualche minuscolo frammento, ha distrutto in pratica tessuti,
lavori in legno e, in genere, tutto il materiale naturalmente deperibile.
È difficile per l'uomo moderno cogliere completamente
la criticità del vivere ordinario di quelle antiche popolazioni: è possibile
solo vagamente immaginare la dura e faticosa operosità finalizzata a soddisfare
le esigenze alimentari dei singoli individui, le traversie organizzative dei
villaggi e la precarietà di strutture abitative al giorno d'oggi non più
rintracciabili sul terreno perché scomparse e restituite, come pietre tra le
pietre e terra nella terra, senza alcuna distinzione evidente, all'uniformità
degli elementi naturali del territorio.
Le
relazioni parentali tra i vivi e i rapporti con il mondo dei defunti, secondo
gli studiosi, erano guidati in quell'umanità primitiva da ancestrali
convinzioni magico-religiose proprie di esseri immersi nella natura e
totalmente dipendenti dalla variabilità delle sue manifestazioni. Si credeva,
quindi, l'ambiente circostante animato in ogni aspetto o fenomeno da forze
nascoste, a volte angoscianti, e pertanto in qualche modo da allontanare, non
contrariare, ma rendere invece amiche e favorevoli di fronte alle necessità
dell’esistenza. In tale quadro generale grande rilievo assunse la figura della
“Madreˮ. Si trattò, verosimilmente, di una forma di idealizzazione della
femmina che partorisce e cura la sua prole: rappresentazione, questa, in
qualche modo rassicurante e protettiva, di una entità volta totalmente al
benessere e alla prosperità delle sue creature, elevata pertanto, in quei tempi
aurorali dell'organizzazione sociale, alla più alta astrazione concepibile
dalla mente umana. Una dea, appunto, forte, potente, che governava tutto il
divenire della natura e del cosmo, energia fondamentale per i viventi e
speranza di rigenerazione oltre la morte in un contesto, nel vissuto quotidiano
delle primordiali comunità, di una condivisa considerazione per il ruolo vitale
della capacità procreatrice e, verosimilmente, sotto l'influsso di una
particolare forma di matriarcato.[6]
Sotto
tale forma di culto naturalistico, pertanto, la comparsa sempre sconvolgente
della morte, accadimento del resto legato al normale evolversi di ogni elemento
vivente, probabilmente, veniva intesa (quasi eco del nomadismo atavico che
riemergeva dal subconscio) come una forma di passaggio o di migrazione verso un
ulteriore contesto, più o meno simile al precedente, per raggiungere il quale
era necessario che il morto, nel senso ovviamente di una elaborazione rituale
del distacco, ma pure, si pensa, di una particolare convinzione e speranza,
ripercorresse in qualche modo ogni fase che la natura prevede per tutte le
creature che vengono alla luce. Ecco, quindi, che il defunto, affidato alla
Grande Madre e al Toro simboli di forze soprannaturali, con il corpo intriso di
ocra[7] richiamante il rosso del sangue rigeneratore, veniva
deposto in tombe ipogee[8], accolto e protetto dal grembo fecondo e misterioso
della “Terraˮ: da lì un giorno forse avrebbe avuto accesso ad un'altra vita e,
quindi, a rinnovate e magari più felici esperienze esistenziali.
Importante testimonianza di questa ancestrale visione
religiosa e anche del grado di civilizzazione dei primi insediamenti umani
dell'altopiano, sono considerate, secondo un'interpretazione comune, le
cosiddette domos de janas[9]: esse risaltavano sugli elementi naturali con la loro
monumentalità e, accogliendo la pietà dei viventi in momenti di presenza
individuale e di partecipazione collettiva a favore dei defunti, nobilitavano
con un'aura di sacralità l'ambiente circostante.
Le cellette sepolcrali, erano scavate – dicono i
ricercatori[10] – da veri e propri esperti nella conoscenza delle
caratteristiche particolari dei diversi tipi di pietra e nella tecnica di
lavorazione più adatta ad ogni fronte di banco roccioso. Essi utilizzavano
«picconi litici che, non di rado, dopo la realizzazione dell'opera, venivano
deposti all'interno della tomba insieme agli altri elementi del corredo
funerario. Questi strumenti di forma generalmente “amigdaloideˮ - cioè con
sagoma a foggia di mandorla - potevano essere ricavati sia da un ciottolo di
fiume, mediante il ritocco di un'estremità al fine di ottenere una punta
funzionale, sia da una porzione di roccia dura modellata attraverso la
scheggiatura condotta con l'asportazione di larghi stacchi».[11] In alcune grotticelle artificiali si possono ancora
notare le tracce lasciate dalla punta dello strumento.
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Abbasanta, 30 maggio 2023
Vincenzo Mattana
Per contatti:
abbasantesu@gmail.com
Note
[1] Fase di transizione della preistoria sarda caratterizzata dall'affermarsi della cosiddetta “Cultura di San Micheleˮ.
Il termine “culturaˮ, in senso antropologico, viene attribuito al complesso delle manifestazioni di vita materiale, sociale e spirituale di un popolo, in relazione al grado di civiltà raggiunto in un dato momento del suo processo storico. Quella di “San Micheleˮ, che viene collocata tra la fine del Neolitico e l'Età dei primi metalli, ebbe diffusione in quasi tutto il territorio regionale e deriva la sua denominazione dalla tipologia e dal livello di lavorazione dei reperti recuperati nel 1914 e nel 1949 all'interno della grotta naturale di San Michele, nei pressi di Ozieri.
- Giovanni Lilliu, La civiltà dei Sardi
dal Paleolitico all'Età dei Nuraghi, Il Maestrale/RAI-ERI, Nuoro 2007,
p.79.
Il Neolitico (dal greco néos ‘nuovo’ e líthos ‘pietra’)
corrisponde al periodo più recente dell’Età della Pietra ed è caratterizzato
dall’uso della pietra levigata. Gli uomini neolitici conobbero e praticarono
l'agricoltura e l'allevamento e, come le antiche popolazioni precedenti, anche
la caccia, la ricerca di molluschi, l'utilizzo di erbe selvatiche commestibili
e la raccolta di frutti spontanei. Gli insediamenti si suppongono a livello
familiare o, al più, di clan.
Il Calcolitico (dal greco khalkós ‘rame’ e líthos ‘pietra’), denominato anche “Eneoliticoˮ (dal latino aenĕus ‘di bronzo’ e dal greco líthos ‘pietra’), si riferisce al tempo in cui l'uomo scoprì e cominciò ad usare i primi metalli. La Sardegna in questa fase venne raggiunta da nuovi influssi culturali e da migrazioni provenienti da Oriente e di seguito anche da Occidente. Crebbe il numero degli individui componenti i singoli insediamenti in parte per l'arrivo di nuove genti ma soprattutto per l'aggregarsi di gruppi familiari o clan. Lentamente i rapporti sociali divennero, quindi, sempre più complessi e conflittuali.
Riguardo, infine, al termine “Preistoriaˮ è necessario tenere sempre a mente che con esso, in linea generale, si definisce l’insieme delle manifestazioni e delle vicende di un popolo, a partire dai tempi più remoti fino all'uso della scrittura. La descrizione di tale periodo, in assenza di documenti scritti, è ovviamente lacunosa e imperfetta, perché gli studiosi devono basare le loro ricerche esclusivamente su ritrovamenti archeologici, cioè su oggetti (o frammenti di essi), resti di costruzioni e tombe, parti di scheletro e residui di cibo o altre tracce comunque collegabili agli esseri umani. Come si può intuire, si tratta di studi e ricostruzioni molto difficili, dove, a volte, si arriva a conclusioni non unanimi e condivise, se non addirittura apertamente contestate.
[2] Da dove provenissero gli esploratori neolitici che
presero possesso del territorio abbasantese non è facile stabilirlo con
sicurezza. Si suppone da diversi studiosi che intorno al 5000 a.C., seguendo
l'istinto al nomadismo molto vivo nelle antiche popolazioni preistoriche,
gruppi di agricoltori-allevatori abbandonassero in più riprese le terre
continentali e approdassero lungo le coste della Sardegna, in una sorta di
migrazione a tappe, coinvolgendo diverse generazioni e raggiungendo, come mete intermedie,
le isole dell'Arcipelago Toscano e la Corsica. Certamente per quegli uomini
avventurosi fu determinante la scoperta dei ricchi giacimenti di ossidiana
presenti nel Monte Arci, rilievo ben visibile e a poca distanza dai loro punti
di approdo nella costa occidentale. Sulle sue pendici e nel territorio
circostante si distribuirono quindi piccoli insediamenti a livello familiare o
di clan, dove si procedeva all'estrazione ed alla raccolta del prezioso vetro
vulcanico, mentre nelle zone più fertili e in prossimità del mare e degli
stagni costieri sorsero i villaggi più organizzati.
Per quanto riguarda il territorio di Abbasanta, tra le diverse vie naturali
seguite dall'uomo neolitico in esplorazione verso nuove terre, fu
importantissimo il corso del fiume Tirso, a partire dalla sua foce nel golfo di
Oristano e, quindi, salendo man mano lungo l'alveo, sempre più all'interno
verso regioni allora sconosciute.
Sicuramente
grande attrattiva dovette esercitare la piana alluvionale della Campeda, posta tra il Guilcier ed il
Barigadu, in quei tempi attraversata e resa fertile dal grande fiume ed ora
occupata completamente dal bacino artificiale del lago Omodeo. Quindi
principalmente da essa, dove mirate ricerche archeologiche hanno portato alla
luce resti di un villaggio neolitico, i primi agricoltori-allevatori,
percorrendo le vie di accesso dei canales,
raggiunsero verosimilmente la grande distesa dell'altopiano basaltico.
[3] Si ricorda l'anitra (Su 'au 'e s'anáde) il cervo (Crebos),
l'airone (S'ena 'e sa menga),
l'avvoltoio (S'enturdzòne), il daino
(Ponte la dáina) [?], il corvo (Putzu 'e crobos) e la lepre (Ardzòla 'e lèperes).
Cfr. - Associazione Archeologica Etnografica Abbasantese, I toponimi del territorio di Abbasanta, Editrice S'Alvure, Oristano
1993.
[4] A detta degli studiosi si trattava di minuscoli
insediamenti che offrivano rifugio ad individui poco numerosi, forse singoli
gruppi familiari allargati, a livello di clan.
[5] Si pensa che mediamente la vita umana fosse, in quei
tempi molto duri e difficili, alquanto breve: alcuni ipotizzano una durata di
circa trent'anni.
[6] Piccole raffigurazioni della Dea Madre vennero
realizzate con la creazione di statuine litiche che la rappresentarono secondo
forme esaltanti le rotondità e la potenza generatrice del corpo. L'aver trovato
il piccolo simulacro della dea in diverse tombe ipogee del territorio isolano,
insieme ad altri elementi del corredo funerario, attesta quindi la grande
importanza attribuita nelle credenze religiose dei Neolitici alla funzione
riproduttiva femminile e, nel contempo, sembra confermare l'esistenza di vere e
proprie azioni di culto che si immaginano svolte durante la sepoltura,
specialmente di defunti importanti e benvoluti all'interno della comunità.
Per quanto concerne l'altopiano abbasantese si potrebbe addirittura supporre il
ripetersi di veri e propri pellegrinaggi religiosi verso la grotta di S'adde alla periferia di Macomer dove
venne trovata, tra altro materiale tipico del periodo neolitico, una minuscola
scultura muliebre, chiamata in seguito dagli studiosi Veneretta.
- Giovanni Lilliu, 2007, cit., pp. 260, 261.
- Felice Cherchi Paba, Macomer, Quad. Stor. Turist. n. 15, S.T.E.F.,
Cagliari, 1971, pp. 16-19.
- Mario Ligia, Macomer tra storia e leggenda, Eurografica, Macomer,
1990, pp. 12-17.
- Gino Kalby Pitzolu, Macopsisa/Macomer, Ripostes, Salerno-Roma, 1990,
pp. 5-8.
[7] Varietà terrosa di un ossido di ferro (ematite) usata
come sostanza colorante sin dalla preistoria.
[8] Per “ipogeoˮ si intende un luogo di culto o di
sepoltura sotterraneo.
[9] Denominazione scaturita dalla fantasia popolare dopo
che, con lo scorrere del tempo, si perse il ricordo dell’uso originario degli
ipogei. Si giunse pertanto ad ipotizzare che fossero la dimora delle janas,
piccole creature misteriose e, nell'immaginario collettivo, dotate di poteri
paragonabili a quelli delle fate o delle streghe.
La dizione “domosˮ corrisponde alla tradizione ed alla lingua parlata
abbasantese.
[10] Giovanni Lilliu, 2007, cit., pp. 122, 141, 231.
[11] Anna Depalmas, “L'uso della pietra basaltica durante
il periodo prenuragico e nuragico nel territorio di Ghilarzaˮ, in AA. VV., Basalto, ISKRA, Ghilarza, 2000, pp. 47,
48.
[12] Dal greco mégas ‘grande’ e líthos
‘pietra’.
[13] Caterina Bittichesu, in “Progetto Iloi”, SEDILO. I
Monumenti, Tomo III, SEDILO 3, AA.VV., I monumenti nel contesto territoriale
comunale, a cura di G. Tanda, Antichità Sarde, Studi e ricerche, n.
3/I-III, Sassari 1998, p. 117:
«Dal punto di vista cronologico i dolmen più antichi, perché anteriori al IV
millennio, sono quelli della Palestina e della Giordania.»
[14] Dal bretone tol ‘tavola’ e men
‘pietra’. Termine adottato in ambito archeologico.
[15] - Giovanni Lilliu, 2007, cit., p. 223.
- Giacobbe Manca “Alle origini di
Norghiddo e Domusnovas Canalesˮ, in Norbello e Domusnovas Canales - Appunti
di vita comunitaria, di G. Manca - A. Pinna - F. Parascandolo - M. Marras,
Ediz. Grafica del Parteolla, Dolianova, 2004, p. 33.
[16] Nel caso specifico delle domos, a scoraggiare la
creazione di maggiori o plurimi spazi interni, contribuirono le caratteristiche
di durezza e di conformazione proprie dei banchi di roccia basaltica che, nelle
modalità tecniche e nel tempo necessario, certamente condizionarono l’opera degli
addetti allo scavo.
[17] Giovanni Lilliu, 2007, cit., p.229.
[18] Con il consolidamento delle stazioni umane situate
nelle zone più favorevoli e, quindi, con l’aumento dei componenti di alcuni
villaggi, ma, probabilmente, anche per mutate esigenze di culto o per il
sovrapporsi di genti con altre tradizioni, si verificò l’incontro, se così si
può dire, tra la struttura del dolmen e quella della domo. Infatti, mentre
precedentemente e durante le fasi iniziali della prima Età dei metalli si
continuarono a scavare grotticelle in massi e formazioni rocciose, molto più
praticamente in quest’ultimo periodo, a volte, si preferì modificare alcune
domos preesistenti, aggiungendo anteriormente ad esse una sorta di
prolungamento della cella sepolcrale realizzato, secondo lo stile dolmenico,
con lastre in verticale e a copertura.
E’ quanto si trova a Mesu ènas, S’angròne e Mura íddari. In quest'ultimo luogo, con un corridoio scavato per
gran parte nella viva roccia, sembra scorgersi, particolarmente in uno dei tre
ipogei esistenti, la dimostrazione della piena affermazione di una nuova
cultura funeraria.
[19] A Funtana raminosa di Gadoni, nella Barbagia
di Belvì, furono osservati resti di fonderia dove dalla calcopirite veniva
ricavato il rame locale.
G. Lilliu, 2007, cit., pp. 636-638.