martedì 30 maggio 2023

Le più antiche radici

 

LE PIÙ ANTICHE RADICI 

 


    

Tra Neolitico finale e Calcolitico (3300 - 2500 a.C. circa)[1]    

        I primi esseri umani che si insediarono nell'altopiano basaltico di Abbasanta[2] trovarono un ambiente naturale ancora intatto, caratterizzato da fitti boschi di quercia, da compatte formazioni minori di altre essenze arboree e da folta vegetazione a portamento arbustivo. Nelle depressioni del suolo a copertura rocciosa, ristagni d'acqua piovana costituivano aree paludose, alcune anche notevoli, mentre in diversi siti sgorgavano sorgenti che affiorando dagli strati sotterranei alimentavano ruscelli provenienti dalla fascia pedemontana del Montiferru. Questo paesaggio primordiale dava protezione e nutrimento a numerosi animali, terrestri e volatili: di alcuni, ormai rari o non più presenti localmente, son rimaste vaghe ed esigue tracce nella memoria popolare solo a livello toponomastico.[3]      


        Fu questo il periodo in cui sorsero i più antichi villaggi[4] del territorio, sparuti gruppi di rozze capanne, realizzate con un muretto a secco di basamento ed una copertura di frasche e fasci d'erba sapientemente posti in opera. Vicinissime le coltivazioni difese, da possibili incursioni e devastazioni da parte di animali vaganti, con rudimentali recinzioni di fronde spinose e pietre raccolte dal terreno circostante.
In tali precarie abitazioni, poco più che rifugi, la vita scorreva stentata e faticosa
[5], probabilmente secondo una divisione di compiti la cui gravosità era legata al sesso, all’età o alle condizioni di salute. Questi primi abitanti utilizzavano strumenti ed armi di pietra, nella costruzione dei quali, praticamente con l’esperienza acquisita e affinata da numerose generazioni, avevano raggiunto una grande conoscenza e una notevole capacità manuale di lavorazione. Attrezzi di uso comune, ai quali era richiesta principalmente una buona funzione percussiva, venivano ricavati generalmente scegliendo, adattando e levigando pezzi di basalto; mentre dove era necessario ottenere margini affilati o punte acuminate si faceva ricorso alla selce e particolarmente all’ossidiana, roccia effusiva a pasta vetrosa, vero e proprio “oro neroˮ di quelle popolazioni primitive, proveniente dal Monte Arci. Soprattutto quest'ultima ancora oggi, sotto forma di schegge e frammenti irregolari, si rinviene di tanto in tanto casualmente sul terreno durante il lavoro agricolo negli orti e nei vigneti, testimoniando sia l'operosità quotidiana e la presenza nell'altopiano degli antichi agricoltori-allevatori e sia i loro spostamenti nell'esercizio della caccia e nella raccolta di quanto l'ambiente offriva spontaneamente.     
        Di tutta la produzione umana del neolitico finale, tolti gli oggetti di uso comune in pietra, i frustoli di ossidiana e, ove presenti, i cocci di una semplice terracotta, quasi nulla è arrivato sino al giorno d'oggi; il tempo, salvo qualche minuscolo frammento, ha distrutto in pratica tessuti, lavori in legno e, in genere, tutto il materiale naturalmente deperibile.  



        È difficile per l'uomo moderno cogliere completamente la criticità del vivere ordinario di quelle antiche popolazioni: è possibile solo vagamente immaginare la dura e faticosa operosità finalizzata a soddisfare le esigenze alimentari dei singoli individui, le traversie organizzative dei villaggi e la precarietà di strutture abitative al giorno d'oggi non più rintracciabili sul terreno perché scomparse e restituite, come pietre tra le pietre e terra nella terra, senza alcuna distinzione evidente, all'uniformità degli elementi naturali del territorio.   


        Le relazioni parentali tra i vivi e i rapporti con il mondo dei defunti, secondo gli studiosi, erano guidati in quell'umanità primitiva da ancestrali convinzioni magico-religiose proprie di esseri immersi nella natura e totalmente dipendenti dalla variabilità delle sue manifestazioni. Si credeva, quindi, l'ambiente circostante animato in ogni aspetto o fenomeno da forze nascoste, a volte angoscianti, e pertanto in qualche modo da allontanare, non contrariare, ma rendere invece amiche e favorevoli di fronte alle necessità dell’esistenza. In tale quadro generale grande rilievo assunse la figura della “Madreˮ. Si trattò, verosimilmente, di una forma di idealizzazione della femmina che partorisce e cura la sua prole: rappresentazione, questa, in qualche modo rassicurante e protettiva, di una entità volta totalmente al benessere e alla prosperità delle sue creature, elevata pertanto, in quei tempi aurorali dell'organizzazione sociale, alla più alta astrazione concepibile dalla mente umana. Una dea, appunto, forte, potente, che governava tutto il divenire della natura e del cosmo, energia fondamentale per i viventi e speranza di rigenerazione oltre la morte in un contesto, nel vissuto quotidiano delle primordiali comunità, di una condivisa considerazione per il ruolo vitale della capacità procreatrice e, verosimilmente, sotto l'influsso di una particolare forma di matriarcato.[6]             



 

     La divinità femminile, nell'insieme delle concezioni naturalistiche dell'uomo neolitico, si immaginò necessariamente affiancata da un elemento maschile, idealmente ricondotto alla figura del “Toro” e a volte raffigurato simbolicamente nelle tombe del periodo con la riproduzione delle corna incise con tratti spesso essenziali nella parete rocciosa. Il segno era un forte richiamo alla potenza fecondatrice che, come avviene per la propagazione di tutta la vita animale, rendeva possibile il concepimento e il dono dell’esistenza anche agli esseri umani, ma in più partecipava in qualche modo, secondo la speranza dei superstiti, alla rivitalizzazione dei defunti, magari in situazioni nuove e in luoghi diversi da quelli ormai lasciati. La figura del partner, pur considerando l'importanza della sua funzione sotto l'aspetto magico rituale delle primitive credenze religiose, non ebbe, tuttavia, secondo alcune ipotesi, un ruolo preminente nell'immaginario di quelle antiche popolazioni, ma sembra abbia rappresentato nelle comunità prevalentemente agricole del tempo, un carattere secondario, quasi una funzione accessoria, rispetto alla predominanza riconosciuta alla parte femminile e mitizzata nella Grande Madre.



     Sotto tale forma di culto naturalistico, pertanto, la comparsa sempre sconvolgente della morte, accadimento del resto legato al normale evolversi di ogni elemento vivente, probabilmente, veniva intesa (quasi eco del nomadismo atavico che riemergeva dal subconscio) come una forma di passaggio o di migrazione verso un ulteriore contesto, più o meno simile al precedente, per raggiungere il quale era necessario che il morto, nel senso ovviamente di una elaborazione rituale del distacco, ma pure, si pensa, di una particolare convinzione e speranza, ripercorresse in qualche modo ogni fase che la natura prevede per tutte le creature che vengono alla luce. Ecco, quindi, che il defunto, affidato alla Grande Madre e al Toro simboli di forze soprannaturali, con il corpo intriso di ocra[7] richiamante il rosso del sangue rigeneratore, veniva deposto in tombe ipogee[8], accolto e protetto dal grembo fecondo e misterioso della “Terraˮ: da lì un giorno forse avrebbe avuto accesso ad un'altra vita e, quindi, a rinnovate e magari più felici esperienze esistenziali.   

        Importante testimonianza di questa ancestrale visione religiosa e anche del grado di civilizzazione dei primi insediamenti umani dell'altopiano, sono considerate, secondo un'interpretazione comune, le cosiddette domos de janas[9]: esse risaltavano sugli elementi naturali con la loro monumentalità e, accogliendo la pietà dei viventi in momenti di presenza individuale e di partecipazione collettiva a favore dei defunti, nobilitavano con un'aura di sacralità l'ambiente circostante.   






        Le cellette sepolcrali, erano scavate – dicono i ricercatori[10] – da veri e propri esperti nella conoscenza delle caratteristiche particolari dei diversi tipi di pietra e nella tecnica di lavorazione più adatta ad ogni fronte di banco roccioso. Essi utilizzavano «picconi litici che, non di rado, dopo la realizzazione dell'opera, venivano deposti all'interno della tomba insieme agli altri elementi del corredo funerario. Questi strumenti di forma generalmente “amigdaloideˮ - cioè con sagoma a foggia di mandorla - potevano essere ricavati sia da un ciottolo di fiume, mediante il ritocco di un'estremità al fine di ottenere una punta funzionale, sia da una porzione di roccia dura modellata attraverso la scheggiatura condotta con l'asportazione di larghi stacchi».[11] In alcune grotticelle artificiali si possono ancora notare le tracce lasciate dalla punta dello strumento.    






        In seguito, con il sopraggiungere dal mare di nuove correnti migratorie, accanto all’uso dell’ipogeo scavato nella roccia, venne introdotto per le sepolture anche un nuovo tipo di monumento, stavolta di superficie (subaereo), legato a tecniche di megalitismo[12] sviluppatesi nell’Europa Occidentale, ma sempre derivato da concetti appartenenti alla cultura mediorientale propria dei luoghi di provenienza delle precedenti genti neolitiche[13].   
Si tratta del cosiddetto dolmen[14], monumento costituito nella forma più semplice da tre o più massi disposti verticalmente a formare un vano, sui quali ne è posato un altro, sempre dello stesso tipo, di copertura. La struttura era probabilmente completata e isolata da un tumulo di terra, a sua volta contenuto, rivestito e protetto da piccole lastre di pietra[15], riproponendo praticamente lo stesso schema simbolico delle domos de janas, cioè, la tomba rappresentata come grembo materno della “Terraˮ che accoglie il defunto per rigenerarlo ad una nuova vita.  




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        Sia le domos che i dolmen del territorio abbasantese si ritiene ricevessero sepolture collettive limitate, tuttavia, ai membri di una famiglia o, al più, di un clan. Il dettaglio della dimensione molto contenuta presupporrebbe, a parere degli studiosi, da un lato, infatti, che gli abitanti dei villaggi non fossero numerosi e, da un altro, che i cadaveri venissero adagiati rannicchiati, in posizione fetale[16]
Si può ipotizzare ancora, secondo alcuni, che domos particolarmente piccole fossero destinate ad una pratica di inumazione di tipo secondario, immaginando, quindi, in altra sede una precedente fase di scarnificazione con modalità e riti oggi completamente sconosciuti. 
        L’uso del dolmen, infine, stando al pensiero di Giovanni Lilliu,[17] pare sia stato un fenomeno marginale, di acquisizione, una specie di rituale tollerato, in confronto alla sepoltura in roccia delle domos, che vengono riconosciute come il tipo di tomba generalmente più usato e, quindi, rappresentativo dell’uomo risalente alla cosiddetta Cultura di San Michele. La considerazione sarebbe confermata non solo dal ridotto numero di tali costruzioni megalitiche, che si trovano collocate a volte addirittura accanto alle stesse domos, come a Mesu Enas, ma anche dal fatto che spesso le grotticelle artificiali, pur essendo un'espressione del Neolitico recente, vennero mantenute a lungo, ritoccate o ampliate, anche nella successiva prima Età dei metalli.[18] 








        Si trattò, in ogni caso, di due realizzazioni funerarie che, specialmente nella loro fusione, in una sorta di sincretismo religioso, assunsero nella mentalità dell'uomo vissuto in quel lontano periodo sempre più il carattere di sacrari, divenendo luoghi in cui verosimilmente si celebravano cerimonie tese a rinnovare la memoria e a propiziarsi l'aiuto degli antenati.





        Fu in questo periodo che, al commercio sempre fiorente dell’ossidiana, si affiancò quello del rame[19] e degli altri metalli che dal sottosuolo sardo venivano estratti e portati anche verso altre terre e presso popoli dove il loro uso andava via via affermandosi. 
Gli insediamenti in tale fase preistorica divennero gradatamente più popolosi e l’organizzazione sociale più complessa. Lentamente, lo stratificarsi di nuovi apporti demografici, il sorgere di conflitti tra gruppi limitrofi, determinati da contrasti sull’uso dello stesso spazio vitale, per transumanze, sconfinamenti e razzie, fece aumentare il senso di insicurezza nell’ambito delle famiglie dei primitivi insediamenti sparsi nel territorio.       
Acquistarono sostanziale considerazione, pertanto, all'interno dei vari villaggi, rispetto ad un passato di stampo più matriarcale, i membri maschili più validi che, con la forza fisica organizzata, erano gli unici in grado di opporsi alle azioni violente di elementi estranei alla loro comunità e, tra tutti, emersero i più coraggiosi e i più capaci di coordinare e mantenere uniti i singoli componenti.    
        Si verificò, quindi, una diffusa valutazione della figura patriarcale che, a livello di elaborazione ideologica, capovolse concetti fino ad allora immutati in campo religioso, dove la memoria dell’antenato valoroso, dell’eroe, trovò collocazione ideale nella maggior venerazione nei confronti del Toro rispetto al precedente culto agricolo della Dea Madre.       

Abbasanta, 30 maggio 2023 

Vincenzo Mattana 

Per contatti:   
abbasantesu@gmail.com      


Note


[1] Fase di transizione della preistoria sarda caratterizzata dall'affermarsi della cosiddetta “Cultura di San Micheleˮ.      

Il termine “culturaˮ, in senso antropologico, viene attribuito al complesso delle manifestazioni di vita materiale, sociale e spirituale di un popolo, in relazione al grado di civiltà raggiunto in un dato momento del suo processo storico. Quella di “San Micheleˮ, che viene collocata tra la fine del Neolitico e l'Età dei primi metalli, ebbe diffusione in quasi tutto il territorio regionale e deriva la sua denominazione dalla tipologia e dal livello di lavorazione dei reperti recuperati nel 1914 e nel 1949 all'interno della grotta naturale di San Michele, nei pressi di Ozieri.   

- Giovanni Lilliu, La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all'Età dei Nuraghi, Il Maestrale/RAI-ERI, Nuoro 2007, p.79.       
Il Neolitico (dal greco néos ‘nuovo’ e líthos ‘pietra’) corrisponde al periodo più recente dell’Età della Pietra ed è caratterizzato dall’uso della pietra levigata. Gli uomini neolitici conobbero e praticarono l'agricoltura e l'allevamento e, come le antiche popolazioni precedenti, anche la caccia, la ricerca di molluschi, l'utilizzo di erbe selvatiche commestibili e la raccolta di frutti spontanei. Gli insediamenti si suppongono a livello familiare o, al più, di clan.        

Il Calcolitico (dal greco khalkós ‘rame’ e líthos ‘pietra’), denominato anche “Eneoliticoˮ (dal latino aenĕus ‘di bronzo’ e dal greco líthos ‘pietra’), si riferisce al tempo in cui l'uomo scoprì e cominciò ad usare i primi metalli. La Sardegna in questa fase venne raggiunta da nuovi influssi culturali e da migrazioni provenienti da Oriente e di seguito anche da Occidente. Crebbe il numero degli individui componenti i singoli insediamenti in parte per l'arrivo di nuove genti ma soprattutto per l'aggregarsi di gruppi familiari o clan. Lentamente i rapporti sociali divennero, quindi, sempre più complessi e conflittuali.        

Riguardo, infine, al termine “Preistoriaˮ è necessario tenere sempre a mente che con esso, in linea generale, si definisce l’insieme delle manifestazioni e delle vicende di un popolo, a partire dai tempi più remoti fino all'uso della scrittura. La descrizione di tale periodo, in assenza di documenti scritti, è ovviamente lacunosa e imperfetta, perché gli studiosi devono basare le loro ricerche esclusivamente su ritrovamenti archeologici, cioè su oggetti (o frammenti di essi), resti di costruzioni e tombe, parti di scheletro e residui di cibo o altre tracce comunque collegabili agli esseri umani. Come si può intuire, si tratta di studi e ricostruzioni molto difficili, dove, a volte, si arriva a conclusioni non unanimi e condivise, se non addirittura apertamente contestate. 

[2] Da dove provenissero gli esploratori neolitici che presero possesso del territorio abbasantese non è facile stabilirlo con sicurezza. Si suppone da diversi studiosi che intorno al 5000 a.C., seguendo l'istinto al nomadismo molto vivo nelle antiche popolazioni preistoriche, gruppi di agricoltori-allevatori abbandonassero in più riprese le terre continentali e approdassero lungo le coste della Sardegna, in una sorta di migrazione a tappe, coinvolgendo diverse generazioni e raggiungendo, come mete intermedie, le isole dell'Arcipelago Toscano e la Corsica. Certamente per quegli uomini avventurosi fu determinante la scoperta dei ricchi giacimenti di ossidiana presenti nel Monte Arci, rilievo ben visibile e a poca distanza dai loro punti di approdo nella costa occidentale. Sulle sue pendici e nel territorio circostante si distribuirono quindi piccoli insediamenti a livello familiare o di clan, dove si procedeva all'estrazione ed alla raccolta del prezioso vetro vulcanico, mentre nelle zone più fertili e in prossimità del mare e degli stagni costieri sorsero i villaggi più organizzati. 
Per quanto riguarda il territorio di Abbasanta, tra le diverse vie naturali seguite dall'uomo neolitico in esplorazione verso nuove terre, fu importantissimo il corso del fiume Tirso, a partire dalla sua foce nel golfo di Oristano e, quindi, salendo man mano lungo l'alveo, sempre più all'interno verso regioni allora sconosciute. 


Sicuramente grande attrattiva dovette esercitare la piana alluvionale della Campeda, posta tra il Guilcier ed il Barigadu, in quei tempi attraversata e resa fertile dal grande fiume ed ora occupata completamente dal bacino artificiale del lago Omodeo. Quindi principalmente da essa, dove mirate ricerche archeologiche hanno portato alla luce resti di un villaggio neolitico, i primi agricoltori-allevatori, percorrendo le vie di accesso dei canales, raggiunsero verosimilmente la grande distesa dell'altopiano basaltico.   


[3] Si ricorda l'anitra (Su 'au 'e s'anáde) il cervo (Crebos), l'airone (S'ena 'e sa menga), l'avvoltoio (S'enturdzòne), il daino (Ponte la dáina) [?], il corvo (Putzu 'e crobos) e la lepre (Ardzòla 'e lèperes).     
Cfr. - Associazione Archeologica Etnografica Abbasantese, I toponimi del territorio di Abbasanta, Editrice S'Alvure, Oristano 1993.   

[4] A detta degli studiosi si trattava di minuscoli insediamenti che offrivano rifugio ad individui poco numerosi, forse singoli gruppi familiari allargati, a livello di clan. 

[5] Si pensa che mediamente la vita umana fosse, in quei tempi molto duri e difficili, alquanto breve: alcuni ipotizzano una durata di circa trent'anni.        

[6] Piccole raffigurazioni della Dea Madre vennero realizzate con la creazione di statuine litiche che la rappresentarono secondo forme esaltanti le rotondità e la potenza generatrice del corpo. L'aver trovato il piccolo simulacro della dea in diverse tombe ipogee del territorio isolano, insieme ad altri elementi del corredo funerario, attesta quindi la grande importanza attribuita nelle credenze religiose dei Neolitici alla funzione riproduttiva femminile e, nel contempo, sembra confermare l'esistenza di vere e proprie azioni di culto che si immaginano svolte durante la sepoltura, specialmente di defunti importanti e benvoluti all'interno della comunità.        
Per quanto concerne l'altopiano abbasantese si potrebbe addirittura supporre il ripetersi di veri e propri pellegrinaggi religiosi verso la grotta di S'adde alla periferia di Macomer dove venne trovata, tra altro materiale tipico del periodo neolitico, una minuscola scultura muliebre, chiamata in seguito dagli studiosi Veneretta.     
- Giovanni Lilliu, 2007, cit., pp. 260, 261.        
- Felice Cherchi Paba, Macomer, Quad. Stor. Turist. n. 15, S.T.E.F., Cagliari, 1971, pp. 16-19.        
- Mario Ligia, Macomer tra storia e leggenda, Eurografica, Macomer, 1990, pp. 12-17.    
- Gino Kalby Pitzolu, Macopsisa/Macomer, Ripostes, Salerno-Roma, 1990, pp. 5-8.        

[7] Varietà terrosa di un ossido di ferro (ematite) usata come sostanza colorante sin dalla preistoria.  

[8] Per “ipogeoˮ si intende un luogo di culto o di sepoltura sotterraneo.   

[9] Denominazione scaturita dalla fantasia popolare dopo che, con lo scorrere del tempo, si perse il ricordo dell’uso originario degli ipogei. Si giunse pertanto ad ipotizzare che fossero la dimora delle janas, piccole creature misteriose e, nell'immaginario collettivo, dotate di poteri paragonabili a quelli delle fate o delle streghe.   
La dizione “domosˮ corrisponde alla tradizione ed alla lingua parlata abbasantese.  

[10] Giovanni Lilliu, 2007, cit., pp. 122, 141, 231.        

[11] Anna Depalmas, “L'uso della pietra basaltica durante il periodo prenuragico e nuragico nel territorio di Ghilarzaˮ, in AA. VV., Basalto, ISKRA, Ghilarza, 2000, pp. 47, 48.    

[12] Dal greco mégas ‘grande’ e líthos ‘pietra’.     

[13] Caterina Bittichesu, in “Progetto Iloi”, SEDILO. I Monumenti, Tomo III, SEDILO 3, AA.VV., I monumenti nel contesto territoriale comunale, a cura di G. Tanda, Antichità Sarde, Studi e ricerche, n. 3/I-III, Sassari 1998, p. 117:
«Dal punto di vista cronologico i dolmen più antichi, perché anteriori al IV millennio, sono quelli della Palestina e della Giordania.»  

[14] Dal bretone tol ‘tavola’ e men ‘pietra’. Termine adottato in ambito archeologico. 

[15] - Giovanni Lilliu, 2007, cit., p. 223.     
   - Giacobbe Manca “Alle origini di Norghiddo e Domusnovas Canalesˮ, in Norbello e Domusnovas Canales - Appunti di vita comunitaria, di G. Manca - A. Pinna - F. Parascandolo - M. Marras, Ediz. Grafica del Parteolla, Dolianova, 2004, p. 33.   

[16] Nel caso specifico delle domos, a scoraggiare la creazione di maggiori o plurimi spazi interni, contribuirono le caratteristiche di durezza e di conformazione proprie dei banchi di roccia basaltica che, nelle modalità tecniche e nel tempo necessario, certamente condizionarono l’opera degli addetti allo scavo.      

[17] Giovanni Lilliu, 2007, cit., p.229.         

[18] Con il consolidamento delle stazioni umane situate nelle zone più favorevoli e, quindi, con l’aumento dei componenti di alcuni villaggi, ma, probabilmente, anche per mutate esigenze di culto o per il sovrapporsi di genti con altre tradizioni, si verificò l’incontro, se così si può dire, tra la struttura del dolmen e quella della domo. Infatti, mentre precedentemente e durante le fasi iniziali della prima Età dei metalli si continuarono a scavare grotticelle in massi e formazioni rocciose, molto più praticamente in quest’ultimo periodo, a volte, si preferì modificare alcune domos preesistenti, aggiungendo anteriormente ad esse una sorta di prolungamento della cella sepolcrale realizzato, secondo lo stile dolmenico, con lastre in verticale e a copertura. 
E’ quanto si trova a Mesu ènas, S’angròne e Mura íddari. In quest'ultimo luogo, con un corridoio scavato per gran parte nella viva roccia, sembra scorgersi, particolarmente in uno dei tre ipogei esistenti, la dimostrazione della piena affermazione di una nuova cultura funeraria.         

[19] A Funtana raminosa di Gadoni, nella Barbagia di Belvì, furono osservati resti di fonderia dove dalla calcopirite veniva ricavato il rame locale.  
G. Lilliu, 2007, cit., pp. 636-638.