martedì 23 maggio 2023

Abbasanta: il primo documento (1342)





Abbasanta: il primo documento 




Rationes Decimarum Italiae di Pietro Sella



Dagli atti dell'Archivio Vaticano, precisamente dai codici n. 212, 245 e 246, relativi all'esazione delle decime e di altri censi imposti dalla Chiesa nel Regno di Sardegna e Corsica, proviene la prima menzione sinora documentata del poleonimo[1] Abbasanta.        

Nelle annotazioni relative agli anni 1342, 1346, 1347, 1348 e 1358 la denominazione del paese appare già “ABBASANTA, tradotta, dalla parlata locale, nel latino medioevale degli atti pubblici del tempo, in Abba Sancta e Aqua Sancta e, ove declinata al genitivo, in Abbe Sancte.
L'opera di Pietro Sella[2] attesta che, negli anni 1342 e 1346, la cura delle anime e la responsabilità dell'ecclesia abbasantese erano affidate, in qualità di rettore, al canonico Giacomo (Iacobus) Ermanni[3] e ricadevano sotto la giurisdizione ed il governo del vescovo di Santa Giusta.[4]   

Ecco di seguito i passi che si riferiscono al villaggio di Abbasanta:

•   Annotazioni relative all'anno 1342.[5]
[Le registrazioni non appaiono effettuate in ordine cronologico]


«Item anno et pontificatu quibus supra die XXVI mensis septembris habui et recepi pro particulari solucione dictarum decimarum a dictis fratre Nicolao et Iohanne canonico[6] tradentibus pro domino Iacobo Ermanni canonico Abbe Sancte ..., in ecclesia S. Iuste alfonsinorum lib. II.»[7]   [Annotaz. n. 408]      
«Item anno, indictione[8] et pontificatu quibus supra die III mensis novembris alfonsinorum lib. IIII.»    [Annotaz. n. 409]      
«Item anno XLII, indictione X, pontificatus domini Clementis pape VI anno primo dicta die XXVIII septembris habui et recepi a dicto Hugone
[9] tradente pro Iacobo canonico et rectore de Aqua sancta diocesis S. Iuste pro particulari solucione dictarum decimarum lib. III.» [Annotaz. n. 953]       
«Item die XV mensis madii lib.
III.»[10]      [Annotaz. n. 954]       

•   Annotazioni relative all'anno 1346 (16 maggio).        
«Item a domino Iacobo rectore Abbe sancte lib. duas, sol. quinque.»   [Annotaz. n. 1367]   
«Item a domino Iacobo rectore Abbe sancte lib. unam, sol. quindecim.»       [Annotaz. n. 1627]        

•   Annotazione relativa all'anno 1347 (19 maggio).       
«Item pro ecclesia Abbe sancte lib. duas.»     [Annotaz. n. 1833]    

•   Annotazione relativa all'anno 1348 (26 agosto).        
«Item pro canonico et rectore de Abba sancta lib. duas.»      [Annotaz. n. 2455]  

•   Annotazione relativa all'anno 1358 (9 ottobre).
«Item pro ecclesia de Aqua sancta I lib.»      [Annotaz. n. 2811] 


Confrontando gli importi delle somme versate dalla comunità di Abbasanta, colpisce la grande differenza tra quelle riscosse nel 1342 e quelle prelevate nel 1358: si passa, infatti, dalle dodici libbre di alfonsini minuti[11] del primo anno, alle quattro del 1346, alle due del 1347, ad ancora due del 1348 e a solamente una del 1358, ultimo periodo documentato. Anche nell'ipotesi, poco verosimile, che le annotazioni non riportino la totalità delle decime e degli altri introiti ecclesiastici riscossi nel villaggio, esse, comunque, danno il segno di una grave crisi demografica e, di conseguenza, economica attraversata dal territorio nell'arco di appena sedici anni.[12]  


Ricorrenti carestie, ma, soprattutto, la terrificante epidemia di peste nera del 1348[13], devastarono tutta la Sardegna e, quindi, quasi certamente anche il Guilcier.[14] Negli anni successivi,[15] la frequente ricomparsa del morbo, con un brusco calo della popolazione e della forza lavoro (si calcola che la mortalità sia stata intorno al 50%), e l'abbandono di molte colture, con una conseguente carenza di beni primari di sussistenza, ostacolarono il recupero dei centri abitati e ridussero con tutta evidenza la regione ad una situazione di grave prostrazione e miseria.[16]

Nei codici riportati dalle Rationes Decimarum non si leggono (e dal testo non se ne colgono le motivazioni) dati e riferimenti relativi alle chiese di Ghilarza e Norbello, mentre, oltre che su Abbasanta, sono presenti le annotazioni su Paulilatino, Sedilo e altri villaggi minori. La perplessità, sulla mancanza di informazioni relative alle due ville citate, deriva dalla considerazione che, specialmente Ghilarza, ma anche Norbello, hanno una storia documentata fino al 1261 dal Condaghe di Santa Maria di Bonarcado e dal Codex di Pasquale Tola; inoltre, tutti e due i centri abitati si ritroveranno, qualche decennio dopo, inclusi, con una buona rappresentanza di giurati, nell'atto di pace tra Eleonora di Arborea e Giovanni d'Aragona.

La riscossione delle decime e dei censi fu, dai papi al governo della Chiesa in quel periodo,[17] tramite la Camera Apostolica,[18] affidata a prelati di fiducia[19] che, in qualità di collettori,[20] sollecitarono i vescovi e i superiori locali dei vari ordini religiosi, a volte ricalcitranti e oggetto di richiami e di sanzioni canoniche anche molto gravi,[21] a favorire con il massimo impegno la buona riuscita di tutta l'operazione.      
In alcuni casi fu richiesto espressamente anche l'intervento delle autorità di governo locale affinché, applicando la legislazione temporale, venissero con la forza ricondotti all'obbedienza comportamenti di manifesta ribellione e recuperati coartatamente gli introiti reclamati dagli inviati pontifici e, a volte, da altri abusivamente incorporati.

Le somme raccolte, secondo le intenzioni dei pontefici, dovevano essere destinate in primo luogo ad armare una crociata contro i Turchi. Questi, che già in precedenza erano riusciti ad occupare quasi tutti i territori dell'impero bizantino e ne avevano praticamente circondato la capitale Costantinopoli, nel 1354 avevano raggiunto e superato lo stretto dei Dardanelli, minacciando direttamente la sicurezza dell'Occidente cristiano. L'intervento militare congiunto «contra infideles», promosso, incoraggiato e sollecitato dal papato, a causa della disorganizzazione e dello stato di crisi in cui si agitavano le nazioni europee, non ebbe tuttavia luogo e i Turchi, che intanto avevano conquistato le regioni balcaniche ed erano giunti ai confini ungheresi, si fermarono solo perché a loro volta attaccati, nel 1402, dalle orde di Tamerlano che avevano raggiunto il loro impero.


17 gennaio 2017                                              Vincenzo  Mattana

[Revisione del 24 dicembre 2021] 


Per contatti:
abbasantesu@gmail.com



Note 



[1] Per “poleonimo” si intende il toponimo, cioè il nome, di un centro abitato.

[2] Pietro Sella, Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV – SARDINIA, Città del Vaticano 1945.

[3] Non è dato sapere in che modo Giacomo Ermanni conciliasse gli impegni relativi all'incarico di rettore, titolo che presuppone a livello locale una presenza costante nella liturgia e nella cura delle anime, con gli obblighi che, come canonico e quindi membro del Capitolo della cattedrale di Santa Giusta, doveva espletare accanto al suo vescovo, soprattutto in occasione delle solennità annuali. Considerando le difficoltà, i disagi e a volte i pericoli degli spostamenti a cavallo per coprire in quei tempi la distanza con Santa Giusta, sembra verosimile che la sua residenza fosse in realtà presso la sede vescovile e che ad Abbasanta la popolazione venisse guidata, in qualche modo, da un presbitero a lui subalterno. Sicuramente su Giacomo Ermanni convergeva, comunque, la raccolta delle decime e degli altri introiti che, nel settore ecclesiale, provenivano dalla piccola comunità.

[4] La diocesi di Santa Giusta, che comprendeva grosso modo i territori delle curatorie giudicali del Guilcier e di Ollolai, nacque anteriormente all'anno 893 per soppressione e spostamento di quella di Forum Traiani. Nel 1503 venne abolita e, il 15 luglio 1515, unita all'archidiocesi di Oristano.

[5] Anno 1342: il pontefice che da Avignone guidava la Chiesa era Clemente VI, eletto il sette maggio dello stesso anno, dopo la morte di Benedetto XII avvenuta il venticinque aprile.

[6] Si trattava di fra Nicola Corso «de ordine predicatorum», cioè domenicano, e di Giovanni Capra canonico «S. Theodorii de Pauli Latina», due collaboratori del nunzio pontificio Giovanni Amalrici nell’esazione delle decime e degli altri tributi relativi alla diocesi di Santa Giusta. Forse Giovanni Capra è lo stesso personaggio in altre parti del testo denominato Capax (p. 43, annotaz. n. 397) o Capay (p. 117, annotaz, nn. 1109-1111).

[7] L'introduzione della libbra o lira viene generalmente fatta risalire alla riforma voluta da Carlo Magno (n.742 - m.814), quando, da una libbra d'argento (408 grammi circa), furono coniati esattamente duecentoquaranta denari di un'ottima lega. Questi, all'inizio equivalenti in tale numero alla libbra d'argento e con essa scambiabili, con l'andare del tempo e il variare delle decisioni in campo monetario dei diversi stati, vennero prodotti con leghe che, contenendo sempre minori quantità di metallo prezioso, finirono per determinare un calo del loro valore intrinseco. Mutò, così, il rapporto di perfetta equivalenza stabilito in origine, ma la libbra, tuttavia, continuò ad essere nominata come unità di conto e, prescindendo dalla proporzione di argento utilizzata per creare le monete, indicò in ogni caso una quantità numerica di 240 denari.       
Si consolidò, pertanto, un sistema monetario in cui il valore circolante di base fu il denaro e questo, per agevolare i calcoli, ebbe come multipli solo nominali il soldo che corrispose a 12 denari e la lira che rappresentò idealmente venti soldi o 240 denari.
La quantità di metallo prezioso utilizzata nella composizione della lega costituì ovviamente il criterio più importante di valutazione, tra coniazioni provenienti da zecche di diversi stati, soprattutto nel cambio con le monete forti e affidabili dei più importanti mercati.    
La riforma carolingia, con numerosi adattamenti che via via si resero necessari, venne mantenuta praticamente nei diversi stati europei lungo tutto il medioevo e fino al periodo moderno, quando, intorno alla metà del XIX secolo, venne introdotto il sistema metrico decimale attualmente in uso.   
Lontani dalle manovre finanziarie del potere, i ceti sociali di limitate condizioni economiche delle popolazioni del medioevo – e, quindi, anche la maggior parte degli abitanti del Guilcier – ovviamente non conoscevano grande circolazione di moneta nei loro modesti commerci. Questi, verosimilmente, venivano condotti, in un sistema di precarietà tendente all'autogestione dei mezzi di sussistenza, nell'antica forma del baratto, dove il denaro al massimo svolgeva, solo quando indispensabile, una semplice funzione integrativa nel pareggiare le valutazioni durante lo scambio dei prodotti.

[8] Periodo cronologico ciclico di quindici anni, adottato spesso nel medioevo per le datazioni e utilizzato specialmente nei computi del calendario ecclesiastico. È abbastanza complicato calcolare con esattezza la data di antichi documenti solo sulla base indizionale, perché le cancellerie degli stati del tempo avevano fissato l'inizio del ciclo in giorni differenti, in coincidenza con le diverse date tra le quali veniva fatto cominciare e terminare l'anno civile-religioso (capodanno).

[9] Il compilatore si riferiva al presbitero Ugo Alzaatii, collaboratore del nunzio pontificio Giovanni Amalrici, su incarico di Giacomo de Cucho, vescovo di Santa Giusta.

[10] Traduzione del testo relativo alle annotazioni del 1342:     
‘Ugualmente, nell’anno e nel pontificato di cui sopra, il giorno ventisei del mese di settembre, nella chiesa di santa Giusta, accettai e presi due libbre di alfonsini, come pagamento parziale di dette decime, dai nominati frate Nicola e canonico Giovanni cedenti a nome di don Giacomo Ermanni canonico di Abbasanta.’
‘Ugualmente, nell’anno, indizione e pontificato di cui sopra, il giorno tre del mese di novembre, [accettai e presi] quattro libbre di alfonsini.’          
‘Ugualmente nell'anno [milletrecento]quarantadue, indizione X, primo anno del pontificato di papa Clemente VI, nel detto giorno 28 settembre, accettai e presi tre libbre dal nominato Ugone, cedente a nome di Giacomo canonico e rettore di Abbasanta, della diocesi di Santa Giusta, per parziale pagamento di dette decime.’         
‘Ugualmente, il giorno quindici del mese di maggio [accettai e presi] tre libbre.’      
(Libera versione dal latino medioevale)

[11] Nel 1324, un anno dopo lo sbarco dei Catalano-aragonesi in Sardegna, nella zecca di Villa di Chiesa (Iglesias) vennero coniate due nuove monete, denominate alfonsini in onore del principe ereditario, l'Infante Alfonso, che comandava le truppe dei conquistatori; esse furono l'alfonsino minuto, al quale venne attribuito il valore di un denaro, e l'alfonsino d'argento, equivalente nel cambio a 18 alfonsini minuti.
Nel 1330 fu vietata dai nuovi signori, all'interno dei territori sardi direttamente o indirettamente dipendenti dalla loro sovranità, la circolazione di tutte le monete straniere, ad eccezione di quelle d'oro per il pregio intrinseco che, comunque, queste mantenevano. Allora, l'alfonsino minuto, a parità di valore, andò a sostituire il denaro di Genova che, in quel periodo, predominava nell'isola e rendeva la lira sarda equivalente a quella della città ligure e, di conseguenza, negli anni dal 1342 al 1358, nei quali le Rationes decimarum citano il villaggio di Abbasanta, le popolazioni sarde, pur continuando ad esprimere i valori monetari, come nel passato, in lire, soldi e denari, intesero, tuttavia, per questi ultimi i nuovi minuti  catalano-aragonesi.    
Pertanto, seguendo le notizie contenute nelle annotazioni che riguardano l'antica comunità abbasantese, gli alfonsini minuti da questa versati agli incaricati della riscossione furono 2880 (cioè 12 lire) nel 1342, 960 (cioè 4 lire) nel 1346, 480 (cioè 2 lire) nel 1347, ancora 480 nel 1348 e 240 (cioè 1 lira) nel 1358.    
Le somme in alfonsini minuti, raccolte per le decime, i censi e i benefici ecclesiastici, una volta tra le mani dei collettori pontifici, prima di essere inviate alla residenza papale di Avignone, venivano cambiate, secondo il loro valore intrinseco, in moneta di maggior pregio, d'argento o d'oro, coniata dal regno di Aragona, da Genova, da Firenze o da altre zecche di provata importanza e gradimento nel circuito commerciale europeo.

[12] Nei primi decenni del XIV secolo devastanti carestie avevano già colpito quasi tutto il continente europeo. Si racconta che nel 1315-17 si verificò un susseguirsi di situazioni climatiche avverse alla produzione agricola con lunghi e rigidi inverni, estati eccessivamente piovose, grandinate ed alluvioni che compromisero il normale sviluppo delle coltivazioni danneggiandole a più riprese e vanificando il lavoro del contadino spesso al momento del raccolto. Si ebbe, pertanto, la morte di numerose persone per denutrizione e di parecchio bestiame per carenza di pascolo nei mesi più freddi.      
Un nuovo ciclo di annate negative si verificò in tutta Europa anche tra il 1340 e il 1350, quando a scarse produzioni agricole si aggiunse, a partire dal 1348, la comparsa e la diffusione della peste nera che causò in molti luoghi l’abbandono di campi e colture.

[13] Spaventosa pandemia che imperversò per tutta l'Europa. Sul terrore del contagio e sulla grande mortalità che si verificò dentro le mura della città di Firenze Giovanni Boccaccio basò la trama del suo Decamerone.

[14] Nel mese di maggio del 1348, Pietro IV di Aragona, a causa delle affezioni pestilenziali di varia natura che (Dio permettendo) avevano preso grande vigore nell'isola («in insula Sardinie, propter pestilencialum infirmitates que ex Dei dispositione diversimode invaluerunt in ipsa» – Archivo de la Corona de Aragón - ACA, Reg. 1128, Ff. 188 v., 189 r.), diede disposizioni a Rambaldo de Corbera, reggente «officium gubernatoris insule Sardinie», di porre in atto alcuni interventi che si erano resi necessari. Nel mese di novembre dello stesso anno, il sovrano aragonese incaricò i suoi ambasciatori presso papa Clemente VI di informare il Pontefice che la grande pestilenza, dopo aver colpito la Sardegna, aveva reso l'isola come spopolata («per la gran mortaldat que es stada en Serdenya, es la isla quax despoblada» – Archivo de la Corona de Aragón - ACA, Reg. 1062, Ff. 125 r., 126 v.) [“Documentos acerca de la peste negra en los dominios de la Corona de Aragon”, di Amada López de Meneses, in Estudios de edad media de la Corona de Aragón del 18 agosto 2011, www.cema.unizar.es, documenti n. 3, p.3 e n. 42, p.326].

[15] Verso la fine del 1357, il nunzio pontificio Raimondo Gileti, da Sassari dove aveva preso dimora, descriveva la difficile situazione in cui si trovava ancora la Sardegna settentrionale, percorsa da bande armate, tormentata dalla povertà e prostrata dal morbo che l'aveva colpita duramente, «ideo quia castra, ville et beneficia sunt destructa propter ... guerram et mortalitatem» (‘per il fatto che castelli, villaggi e benefici sono rovinati a causa ... della guerra e dell'epidemia’). [Rationes Decimarum, cit., pag. 259, annotazione n. 2942].

[16] Il periodo immediatamente successivo alla peste del 1348 fu il peggiore che avesse mai conosciuto la popolazione isolana a causa:     
- delle devastazioni della soldataglia    
- del ritorno del morbo (1376, 1398, 1404, 1410, 1424 e 1476)     
- delle grandi carestie del 1374 e del 1421   
- degli intralci ai traffici interni delle derrate e della loro eccessiva esportazione       
- delle deportazioni dei ribelli sardi verso altre terre della Corona d'Aragona.  
Secondo alcune stime, più o meno attendibili, ma bastanti a dare un'idea della situazione demografica isolana di quegli anni, la popolazione di Cagliari calò da circa diecimila abitanti verso il 1320 a meno di duemila dopo la peste del 1348; quella di Sassari passò da dieci-undicimila abitanti a meno di mille fra il 1320 ed il 1358; per Oristano, al momento, mancano informazioni anteriori al 1388. (Sintesi dalle pagine 18, 19 e 30 di “Gli uomini e il territorio: i grandi orientamenti del popolamento sardo dall'XI al XVIII secolo” di John Day, in AA.VV. Storia dei Sardi e della Sardegna, Vol. II Il Medioevo, a cura di Massimo Guidetti, Edit. Jaca Book, Milano 1988).

[17] I pontefici di questo periodo storico risiedevano nella città francese di Avignone (Provenza) ove si erano trasferiti dal 1309. Non ritenendo sicura Roma, rimasero nella nuova sede fino al 1377 ed ivi riorganizzarono tutta la struttura di governo della Chiesa Cattolica e le relazioni politiche con i sovrani e gli Stati del tempo. Ovviamente, trovandosi ad operare sul suolo francese, la quasi totalità dei collaboratori che affiancarono la loro attività fu francese e di tale nazionalità furono anche i papi che ordinarono le esazioni delle decime e dei censi registrate nei codici in esame. Si succedettero, quindi, dal 20 dicembre 1334 al 25 aprile 1342, Giacomo Fournier, che prese il nome di Benedetto XII; dal 7 maggio 1342 al 6 dicembre 1352, Pierre Roger, che scelse il nome di Clemente VI; dal 18 dicembre 1352 al 12 settembre 1362, Étienne Aubert, che assunse il nome di Innocenzo VI.

[18] Ufficio della Curia papale preposto, nel periodo che si sta analizzando, a tutte le operazioni finanziarie e amministrative. Era presieduto da un camerario (camerlengo), vescovo o cardinale, nominato dal papa. Il camerario, con il tesoriere, sceglieva, comandava e revocava i collettori, controllava ed organizzava tutte le entrate che dalle chiese locali e dalle altre istituzioni religiose presenti nelle terre evangelizzate pervenivano al governo centrale della Chiesa.

[19] «pro levandis, exigendis, recuperandis, recipiendis, et conservandis et ad sedem apostolicam mitendis decimis ..., et censibus et fructibus beneficiorum et aliis bonis pertinentibus ad cameram apostolicam» [Rationes Decimarum, cit., pag. 121].

[20] Si ebbe, così, nel 1341 la designazione come «nuncius in regnis Sardinie et Corsice» di Giovanni Amalrici, proveniente (clericus agatensis) dalla diocesi francese di Agde, nella regione della Linguadoca-Rossiglione, poi nominato vescovo di Sorres (1342). Seguì, nel 1346, l'incarico a Raimondo Goosens, «in regno Sardinie apostolice sedis nuncius», che, dal 1348 al 1349, fu anche vescovo di Bosa. Venne, infine, nel 1357, la nomina di Raimondo Gileti, «in regno Sardinie et Corcice apostolice sedis nuncius», che fu vescovo di Solci (Sant'Antioco) dal 1349 al 1359.

[21] Alcuni vescovi con i loro sacerdoti, specialmente nei primi anni in cui si ebbe la raccolta delle decime e delle altre rendite, incorsero nella scomunica e nell'interdizione inflitte loro dai nunzi pontifici per obbligarli a versare quanto dovuto alla camera apostolica.







Considerazioni sui punti indicati nella cartina


1. La venerazione verso santa Caterina di Alessandria ha origini antichissime nella comunità abbasantese. Non si sa quando e da chi venne introdotta perché la sua memoria si perde in un periodo storico lontano e totalmente privo, almeno per il momento, di testimonianze attendibili. La prima citazione della santa come patrona del paese potrebbe essere desunta indirettamente da una pergamena che si dice rinvenuta nella chiesa di Santa Lucia a Ghilarza.[a] Tale edificio originariamente era dedicato a sant'Andrea apostolo e solo a partire dal 1402 si aggiunse al suo interno la venerazione verso santa Lucia che, pur non soppiantando del tutto quella precedente, finì, nel comune sentire, per assumere una netta preponderanza tanto da modificare la denominazione del luogo di culto. 
Il documento in questione, inserito nell'altare durante la cerimonia di consacrazione, riportava la seguente dicitura: 
Die XXIX Aprilis MCCCCIJe sunt in hac pisside incluse reliquie sanctorum lucie Katerine et victorie consecratumque est altere prime virgini sancte gloriose lucie.[b
Quindi, secondo l'interpretazione che del testo dà Michele Licheri, l'altare di santa Lucia sarebbe stato consacrato anche con le reliquie di santa Caterina patrona di Abbasanta e di santa Vittoria patrona di Sella, minuscolo villaggio, quest'ultimo, abbarbicato attorno ad un castello innalzato sul margine dell'altipiano sovrastante Domusnovas Canales.[c
Il fatto assume una precisa importanza storica perché lascerebbe intravedere l'esistenza ad Abbasanta di un edificio di culto dedicato a santa Caterina, diverso sia, ovviamente, da quello attuale (eretto nel XIX secolo) e sia dal precedente, in stile tardogotico sardo-catalano, risalente al XVI secolo. Esso rimarrebbe, pertanto, totalmente sconosciuto come aspetto e dimensioni, ma verosimilmente, considerandolo precedente al 1402, potrebbe, con molta probabilità, essere stato costruito secondo forme romaniche, allora comunemente diffuse. 

Note a, b, c relative al punto 1:



[a] Michele Licheri, Ghilarza - Note di storia civile ed ecclesiastica, Edizioni della Torre, ristampa anastatica dell'edizione di Sassari 1900, pp. 323-327.

[b] ‘Il giorno 29 del mese di aprile [dell'anno] 1402 sono state incluse in questa pisside le reliquie delle sante Lucia, Caterina e Vittoria ed è stato consacrato il primo altare della gloriosa vergine santa Lucia’. (Libera versione dal latino medievale).

[c] Michele Licheri, citato, p. 327.



1.-2.-3. Le piantine delle tre chiese non riproducono forme reali, ma immaginarie. Le stesse, rappresentate come edifici ad una navata, semplice o absidata, rientrano, comunque, in una tipologia costruttiva assai comune nel periodo medievale. 



4.-5. Gli isolati abitativi, indicati con il colore rosso, ipotizzano lo spazio di occupazione urbanistica dell'antico villaggio (villa, cioè, in sardo, 'idda). Essi, frazionati dal primitivo sistema viario (color ocra), sono orientati alla volta dei più importanti collegamenti del tempo e cioè: 
- il sentiero rasente a Funtan'e josso per i Canales ed il Barigadu; 
- i sentieri verso Su monte, per il Campidano, per Bosa e, quindi, per il sud ed il nord dell'isola; 
- i sentieri in direzione dell'antica strada romana, anche se questa, ormai, per mancanza di manutenzione, in molti tratti, non risultava più praticabile. 


6. Sa cora de Ebba muru, dalla quasi totalità degli abbasantesi del passato e ancora oggi, denominata approssimativamente s'irriu, non era in realtà un corso d'acqua naturale, bensì un'antichissima canalizzazione artificiale realizzata dall'uomo per sfruttare, deviandole in tutto o in parte, le acque del rio Bonorchis. Il flusso, quando indirizzato verso il villaggio, permetteva, tramite il funzionamento di piccoli mulini idraulici a ruota orizzontale, la produzione di quantità di farina sufficienti al modesto fabbisogno locale. Sa cora aveva inizio da una chiusa, con una presa d'acqua (sa leada), realizzata, nei pressi dell'attuale confine con Norbello, in località Ebba muru e vicinissima ad un rustico ed interessante ponte in grossi blocchi basaltici (contonadas). Quest'ultima struttura, oltre quella più ovvia di garantire il passaggio tra le due sponde del Bonorchis, probabilmente aveva anche una qualche funzione nel controllare e regimare la massa d'acqua, specialmente durante le periodiche operazioni di manutenzione e ripristino del complesso chiusa-presa. È importante rilevare, infine, che in un documento del 1551 il sito, anziché Ebba muru, è denominato, significativamente, Abba muro


7. Del nuraghe di Chenale, rudere alto circa tre metri, non è rimasta quasi più traccia. I suoi blocchi di pietra vennero utilizzati per colmare, all'interno delle fondazioni dell'attuale chiesa parrocchiale, il grande dislivello esistente sul lato della vallata. Vive nel ricordo lasciato dal manoscritto del Rettore Dessì e nella nota n. 44, pag. 113/391, che Antonio Taramelli riporta nelle sue Carte Archeologiche della Sardegna, Istituto Geografico Militare, Firenze 1940 - Ristampa del 1993 di Carlo Delfino Editore: 
«Dietro la chiesa Parrocchiale di Abbasanta ... In proprietà di Agostino Sanna».
Nella cartina, in mancanza di una precisa planimetria, il complesso costituito dal nuraghe più l'antemurale è stato rappresentato simbolicamente mediante un semplice cerchio.


*****

Località Ebbamuru


*****





******