PIAZZA SANTA CATERINA
L'impianto urbanistico-architettonico
nel periodo della dominazione spagnola
[architettura sarda di influsso e tradizione
stilistica tardogotica catalana]
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ANTICO EDIFICIO ABBASANTESE
[fine XVI secolo][1]
Aspetti generali
L'attuale
complesso delle abitazioni di via Santa Caterina, conosciuto come dimora delle
famiglie Deledda, Mureddu, Manconi e Campra, potrebbe essere stato in origine,
a giudicare dagli elementi tutt'oggi osservabili, costituito di due sole grandi
strutture, la cui destinazione d'uso iniziale risulterebbe pertanto tutta
ancora da individuare in maniera più precisa e circostanziata e, quindi, da
valorizzare in modo particolare sotto l'aspetto storico.
La prima
costruzione, che si presume molto estesa,[2]
sarebbe stata, in un passato di cui al momento non si ha traccia documentata,
suddivisa in tre unità distinte tra loro e ultimamente utilizzata dai primi tre
nuclei familiari sopra specificati.
L'altra[3], della quale si ignora, per interventi edilizi succedutisi nei secoli, l'effettiva consistenza, era (e lo è tuttora) distaccata nettamente dalla precedente perché separata da un'importante via di comunicazione (l'attuale Via Martini) che in quel punto si immetteva sul piazzale, con l'asse verso il portone di ingresso dell'antica chiesa dedicata alla martire alessandrina.[4]
Le considerazioni che seguono si riferiscono solamente alle porzioni un tempo possedute, ognuna per proprio conto, dalle famiglie Deledda e Mureddu; immobili ora acquisiti al patrimonio del Comune di Abbasanta che ha ricomposto quindi parzialmente l'originario fabbricato ipotizzato e ne ha curato il restauro conservativo.
Il locale, in questo lavoro denominato “antico edificio”, è attualmente adibito a sede del Museo Etnografico Abbasantese (M.ET.A.) ed espone strumenti di lavoro del mondo contadino, oggetti e arredi delle abitazioni del passato.[5]
L'altra[3], della quale si ignora, per interventi edilizi succedutisi nei secoli, l'effettiva consistenza, era (e lo è tuttora) distaccata nettamente dalla precedente perché separata da un'importante via di comunicazione (l'attuale Via Martini) che in quel punto si immetteva sul piazzale, con l'asse verso il portone di ingresso dell'antica chiesa dedicata alla martire alessandrina.[4]
Le considerazioni che seguono si riferiscono solamente alle porzioni un tempo possedute, ognuna per proprio conto, dalle famiglie Deledda e Mureddu; immobili ora acquisiti al patrimonio del Comune di Abbasanta che ha ricomposto quindi parzialmente l'originario fabbricato ipotizzato e ne ha curato il restauro conservativo.
Il locale, in questo lavoro denominato “antico edificio”, è attualmente adibito a sede del Museo Etnografico Abbasantese (M.ET.A.) ed espone strumenti di lavoro del mondo contadino, oggetti e arredi delle abitazioni del passato.[5]
L'antico edificio, con il suo lungo e
protettivo porticato, era inserito, nei tempi ormai lontani della sua costruzione,
in un raccolto e articolato impianto urbanistico che si sviluppava secondo
un'armonica visione architettonica richiamante idealmente sa cortiza, cioè lo spazio comune tipico di molti santuari
campestri. L'insieme, racchiudendo un'area capace di radunare numerose persone,
favoriva l'aggregazione della comunità, non solo nelle ricorrenze certamente
attese delle varie feste in prevalenza religiose dell'anno, ma anche nei
momenti cruciali delle decisioni importanti da prendere davanti a gravi
pericoli da fronteggiare o a situazioni di interesse generale nelle quali la
popolazione era chiamata ad esprimere la comune volontà o il proprio parere.
Piazza Santa Caterina (fine XVI secolo)
Ricostruzione ipotetica dell'impianto urbanistico iniziale
Legenda
1- Chiesa di santa Caterina d'Alessandria
2- Area cimiteriale
3- Sagrato
4- Loggiati
5- Porzioni di fabbricato di cui non si conosce l'originaria disposizione dei vani interni
1- Chiesa di santa Caterina d'Alessandria
2- Area cimiteriale
3- Sagrato
4- Loggiati
5- Porzioni di fabbricato di cui non si conosce l'originaria disposizione dei vani interni
Intorno alla
fine del XVI secolo[6], quindi, una teoria
continua di edifici con la facciata completata da eleganti loggiati coronava,
facendo salve le vie di accesso, tutto il piazzale della chiesa parrocchiale
intitolata a santa Caterina di Alessandria, costituendo, anzi, con la stessa,
un'unità stilistica di piacevole effetto visivo e un contesto accogliente per
gli abitanti e per i numerosi pellegrini che, nel periodo della novena e dei
festeggiamenti dedicati alla Patrona, convenivano da tutti i paesi del
circondario.[7]
La vetusta
costruzione, in modo improprio denominata
nel comune parlare “casa aragonese”[8],
venne edificata, su incarico di qualche committente locale, da un'impresa quasi
certamente itinerante[9]
costituita da costruttori sardi
cresciuti nella conservazione di una modalità edilizia di influsso catalano trasmessa di generazione in generazione e sempre nel
tempo, anche se con qualche contaminazione stilistica, fedelmente riproposta.
Numerosi muratori e scalpellini isolani avevano, infatti, successivamente all'invasione della Sardegna da parte della Corona di Aragona[10], affiancato, nei cantieri di grandi chiese e di edifici molto importanti, l'attività di imprese venute dalla Catalogna; si erano, quindi, impadroniti di forme e modelli, continuando a replicarli nelle piccole realtà locali dove venivano chiamati a lavorare e insegnandoli contemporaneamente a tutti i giovani che di volta in volta accoglievano tra loro, prima come apprendisti e poi come operai, nelle varie commesse ricevute.
Numerosi muratori e scalpellini isolani avevano, infatti, successivamente all'invasione della Sardegna da parte della Corona di Aragona[10], affiancato, nei cantieri di grandi chiese e di edifici molto importanti, l'attività di imprese venute dalla Catalogna; si erano, quindi, impadroniti di forme e modelli, continuando a replicarli nelle piccole realtà locali dove venivano chiamati a lavorare e insegnandoli contemporaneamente a tutti i giovani che di volta in volta accoglievano tra loro, prima come apprendisti e poi come operai, nelle varie commesse ricevute.
Il principio e la maggior espansione della corrente artistica alla quale si fa riferimento
possono essere collocati tra il XIII ed il XIV secolo quando le maestranze
catalane intrapresero e consolidarono nel loro territorio di origine,
soprattutto relativamente all'edificazione di importanti luoghi di culto, un
proprio modo di costruire costituito sia dalla fusione della tradizione
romanica con le nuove forme gotiche che si erano diffuse in Europa e sia dall'inserimento
di diversi elementi, specialmente decorativi, trasmessi dalla significativa e
radicata presenza culturale araba nella penisola iberica.
Ne derivò un caratteristico stile architettonico, denominato dagli studiosi “gotico-catalano” che, una volta importato in Sardegna, per quanto riguarda gli edifici civili e di abitazione, preferì, soprattutto nelle opere minori, soluzioni semplici e orizzontalità nello sviluppo.
La parte interna di ogni fabbricato, qualunque fosse la sua destinazione, era praticamente costituito da un locale rettangolare o dall'accostamento di più vani di questo stesso tipo, magari realizzati in tempi successivi e con funzioni diverse. Ciò che differenziò in modo particolare le nuove costruzioni fu però la grande cura posta nella lavorazione delle cornici di porte e finestre con la creazione di architravi, piedritti e davanzali artisticamente scolpiti, ottenendo risultati a volte anche molto elaborati e fantasiosi.
Ne derivò un caratteristico stile architettonico, denominato dagli studiosi “gotico-catalano” che, una volta importato in Sardegna, per quanto riguarda gli edifici civili e di abitazione, preferì, soprattutto nelle opere minori, soluzioni semplici e orizzontalità nello sviluppo.
La parte interna di ogni fabbricato, qualunque fosse la sua destinazione, era praticamente costituito da un locale rettangolare o dall'accostamento di più vani di questo stesso tipo, magari realizzati in tempi successivi e con funzioni diverse. Ciò che differenziò in modo particolare le nuove costruzioni fu però la grande cura posta nella lavorazione delle cornici di porte e finestre con la creazione di architravi, piedritti e davanzali artisticamente scolpiti, ottenendo risultati a volte anche molto elaborati e fantasiosi.
Nei secoli
successivi, quando in Catalogna nuovi influssi culturali portarono al
progressivo abbandono del gotico-catalano, i capimastri e gli artigiani
costruttori sardi, invece, rimasero fedeli, pur nello scorrere del tempo, ad
alcuni aspetti di tale repertorio e, in modo particolare nei territori interni
della regione, per quasi tutto il periodo di dominio della Corona Spagnola (che
era subentrata alla Corona Aragonese), continuarono una modalità edificatoria,
ormai da considerare un po' retro,
sostenuta certo dalla sicurezza offerta dall'esperienza ma, nel contempo, poco
aperta alle novità provenienti dai cambiamenti culturali che animavano i
cantieri d'oltremare.
Tutto ciò sia per l'isolamento di molte zone, sia probabilmente per le preferenze dei committenti locali e, soprattutto, per le precarie condizioni socio-economiche di un largo strato della popolazione: aspetto quest'ultimo che contribuiva di certo a limitare in modo significativo lo sviluppo dell'attività edilizia e caratterizzò per decenni anche le famiglie di Abbasanta, vessate da pesanti prelievi fiscali, angustiate dalla scarsità dei raccolti e tormentate da ricorrenti pestilenze.[11]
Tutto ciò sia per l'isolamento di molte zone, sia probabilmente per le preferenze dei committenti locali e, soprattutto, per le precarie condizioni socio-economiche di un largo strato della popolazione: aspetto quest'ultimo che contribuiva di certo a limitare in modo significativo lo sviluppo dell'attività edilizia e caratterizzò per decenni anche le famiglie di Abbasanta, vessate da pesanti prelievi fiscali, angustiate dalla scarsità dei raccolti e tormentate da ricorrenti pestilenze.[11]
Alla fine
del XVI secolo, infatti, solo alcuni abitanti del paese[12]
potevano contare su un patrimonio sufficiente a coprire le spese richieste dalla
realizzazione di nuove dimore e o di fabbricati da destinare ad altri usi:
si trattava verosimilmente di individui del ceto dominante, con un reddito
derivante da una buona disponibilità terriera e da consistenti attività
commerciali sostenute da adeguati investimenti nel settore agro-pastorale.
Certamente da loro, desiderosi di possedere, con altri beni di pregio,
abitazioni di livello superiore a quelle del resto della popolazione, potevano
venire commesse per opere adatte ad ostentare il loro status sociale e ad accogliere degnamente eventuali ospiti di
riguardo.[13]
Descrizione
L'edificio
abbasantese rappresenta, sotto l'aspetto architettonico, l'espressione della situazione storica alla quale si è sopra accennato e del contesto
culturale ed artistico diffuso in quel periodo in molte zone del territorio
sardo: in estrema sintesi, si può dire che la costruzione si sviluppa prevalentemente
secondo schemi concettuali e decorativi di influsso e di tradizione stilistica “tardogotico-catalana”, con
rielaborazioni, però, e varianti di gusto popolaresco
proposte dagli artigiani isolani che la realizzarono.
Gli aspetti
più significativi del fabbricato originario sono pertanto ancora oggi
individuabili nell'accogliente loggiato della facciata, nelle decorazioni presenti
in tre porte interne, in due esterne e in alcune finestre, come pure in altre
particolarità architettoniche che si possono attualmente notare in due stanze
della struttura.
Il portico
antistante mostra soluzioni adottate anche in edifici religiosi e civili eretti
in altre località vicine, specialmente nel Barigadu[14]. È
sorretto da colonne a fusto cilindrico liscio, con basamento sagomato a tori e
a gole[15],
terminanti superiormente con un caratteristico capitello atto a garantire un
sicuro appoggio alla tessitura lignea del tetto ed al finale manto di copertura
in tegole curve.
Tre porte
interne presentano l'architrave, decorato con il tipico arco inflesso di antica
derivazione araba, sorretto da piedritti, imitanti colonnine, recanti
inferiormente basi sagomate, pur esse, a tori e a gole e terminanti nella parte
superiore con piccoli capitelli a testa di mazza abbelliti da decorazioni
fitomorfiche.[16]
La finestra
rivolta a sud è completata, nella sottostante rientranza all'interno del locale,
da due rustici sedili laterali in pietra: elementi, questi, presenti spesso,
durante i secoli precedenti e ovviamente con soluzioni più eleganti, negli
ambienti residenziali dei castelli e nelle dimore signorili medioevali.
In un'altra
stanza è stata ricavata sulla superficie del paramento interno della parete una
nicchia di forma rettangolare, abbellita da una cornice lavorata con
scanalature e profili rettilinei tondeggianti in rilievo, probabilmente
imitanti semplici motivi rinascimentali. Il manufatto nel complesso si
armonizza stilisticamente con l'ornamento esterno della vicina finestra.
Le colonne e
tutte le eleganti incorniciature che contornano porte e finestre sono state
ottenute dagli scalpellini con la lavorazione e la messa in opera di trachite e
tufo provenienti verosimilmente dalle cave del Barigadu.
Ipotesi
L'antico edificio abbasantese, ad un
esame più approfondito, sembrerebbe rispondere per la sua estensione e
disposizione ad esigenze che vanno oltre il normale modello di dimora familiare,
sia pure di persone facoltose, per indirizzare ipoteticamente le considerazioni
e le indagini verso funzioni e finalità originarie di tipo, si potrebbe dire, pubblico
e, forse, di governo locale.
Osservando,
infatti, i diversi ambienti che al giorno d'oggi lo compongono, si può notare
come tre porte interne paiono indicare, definire e contornare, rendendolo più
bello e signorile con la presenza delle loro decorazioni, uno spazio importante
della costruzione: una sala, cioè, verosimilmente
destinata ad accogliere persone non appartenenti ad un normale nucleo familiare,
ma adibita ad attività e scopi di utilità sociale e, quindi, aperta alla
collettività. Viene da supporre, pertanto, che in origine non fossero presenti sia
gli attuali muri divisori e sia, ovviamente, la muratura di occlusione di una
porta,[17]
realizzati in seguito per separare le abitazioni delle famiglie Deledda,
Mureddu e Manconi, ma che le eleganti mostre delle porte interne si
affacciassero tutte su un unico lungo ambiente progettato per contenere numerosi
individui, vuoi per compiti o fini di tipo civile e di governo, vuoi per scopi
in qualche modo collegati alla vita religiosa.
Anche la
bella nicchia interna della parete che dà sulla facciata, risparmiata tramite
una rientranza del muro di separazione Deledda-Mureddu, sembrerebbe adeguata, più
che ad una costruzione signorile di tipo abitativo, ad un ambiente di uso
pubblico (ripostiglio predisposto, con molta probabilità, per la raccolta e
custodia di leggi, ordinanze, registri e altro materiale tramite una
scaffalatura lignea incassata, ora ovviamente non più esistente): il rientro
del paramento murario, poi, già con la sua presenza parrebbe proprio attestare
che la parete divisoria sia stata eretta in epoca successiva alla realizzazione
della cavità rettangolare.
L'accogliente
ed importante sala troverebbe inoltre il suo completamento ed un perfetto
risalto, da un punto di vista funzionale e monumentale, nell'armonico portico
della facciata. Esso, esteso in lunghezza quanto tutto l'adiacente grande vano
interno ipotizzato, potrebbe costituire, pertanto, come componente di
quest'ultima struttura, un'ulteriore testimonianza della destinazione pubblica
di tutto l'edificio in questione.
Proseguendo,
infine, all'esterno l'esame di tutto il complesso architettonico-urbanistico,
con la piazza per accogliere la comunità, circondata da una teoria di loggiati, la
percezione che si ricava è quella di trovarsi davanti al cuore pulsante della
società del tempo, rappresentato dalla chiesa della protettrice
santa Caterina, luogo di culto principale del centro abitato, e di fronte, si
pensa, da strutture adatte al lavoro degli organi amministrativi e di governo a
livello locale: il potere religioso e il potere civile, insomma, uno accanto
all'altro, a guidare, sostenere, controllare e quindi regolare la vita del popolo durante il dominio della Corona Spagnola.[18]
Sotto i portici e nei rimanenti spazi aperti, infine, è facile immaginare, in particolari situazioni e periodi dell'anno, ma soprattutto nei momenti forti della solennità religiosa patronale, la presenza di mercanti e artigiani di ogni provenienza con l'esposizione delle loro merci, in un affastellamento di prodotti, una babele di voci ed un pigia pigia di compratori e curiosi, immersi nella folla, in un'atmosfera frastornante di festa.
Sotto i portici e nei rimanenti spazi aperti, infine, è facile immaginare, in particolari situazioni e periodi dell'anno, ma soprattutto nei momenti forti della solennità religiosa patronale, la presenza di mercanti e artigiani di ogni provenienza con l'esposizione delle loro merci, in un affastellamento di prodotti, una babele di voci ed un pigia pigia di compratori e curiosi, immersi nella folla, in un'atmosfera frastornante di festa.
Sembra proprio
di vedere quella che Giorgio Farris[19], valente
studioso del territorio, riferendosi alla Via Santa Caterina, definì ruga mercatorum, cioè ‘via o piazza dei
mercanti’: espressione in questo caso forse nostalgicamente un po' eccessiva, ma che pure riconduce alla
mente la dinamicità di un luogo che può essere considerato il nucleo vitale dell'aggregato
urbano di Abbasanta intorno alla fine del XVI secolo.
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CHIESA DI SANTA CATERINA
[architettura sarda di influsso e tradizione
stilistica tardogotica catalana- fine. XVI secolo]
L'antico
edificio venne progettato, si presume, adattando ed ampliando un preesistente
luogo di culto medievale dedicato alla martire alessandrina e fu portato a
termine secondo stili e canoni introdotti già nei secoli precedenti dalle maestranze
catalane approdate in Sardegna, ma, gradualmente, fatti propri da
artigiani e imprese locali che sovente li arricchirono con interpretazioni e
rielaborazioni di gusto popolaresco.
Il nuovo impianto si immagina quindi costituito, come avveniva a volte nei territori meno ricchi e scarsamente abitati del tempo, da un'unica sala a pianta rettangolare terminante con un coro-abside di forma quadrata più stretto e più basso della navata.
Il nuovo impianto si immagina quindi costituito, come avveniva a volte nei territori meno ricchi e scarsamente abitati del tempo, da un'unica sala a pianta rettangolare terminante con un coro-abside di forma quadrata più stretto e più basso della navata.
La muratura
doveva essere consolidata, elemento tipico di quella fase culturale, ma
presente anche in quella romanica precedente, da rinforzi reggispinta esterni
che, in periodi successivi, inglobandoli, sarebbero stati in parte utilizzati
per edificare, nello spazio tra l'uno e l'altro, alcune cappelle laterali che
si aprivano, all'interno della navata, tramite un arco a sesto acuto ribassato.
Allineato al frontale dell'edificio, sul lato sinistro, era con molta probabilità presente un campanile “a canna quadrata”, innestato sul primo contrafforte della struttura.[20]
L'aspetto della facciata, in mancanza di fonti attendibili, può essere ipotizzato, prendendo in considerazione una modalità abbastanza frequente nelle regioni interne, con un loggiato a protezione dell'ingresso, inserito su un prospetto cosiddetto “a terminale piatto”, guarnito di una merlatura del tipo usato successivamente per decorare la modanatura curvilinea della chiesa di San Martino.
Allineato al frontale dell'edificio, sul lato sinistro, era con molta probabilità presente un campanile “a canna quadrata”, innestato sul primo contrafforte della struttura.[20]
L'aspetto della facciata, in mancanza di fonti attendibili, può essere ipotizzato, prendendo in considerazione una modalità abbastanza frequente nelle regioni interne, con un loggiato a protezione dell'ingresso, inserito su un prospetto cosiddetto “a terminale piatto”, guarnito di una merlatura del tipo usato successivamente per decorare la modanatura curvilinea della chiesa di San Martino.
La copertura
della sala-navata era sicuramente realizzata con un manto di tegole curve
poggianti su una intelaiatura di legno a due spioventi, sostenuta, a sua volta,
dai muri portanti e da archi-diaframma a sesto acuto di influsso tardo-gotico
catalano.
Il
coro-abside era invece completato, come avveniva nella generalità di quella
tipologia costruttiva e come risulta dalle testimonianze del crollo, da una
volta in muratura a botte o a crociera semplice.
Per quanto riguarda in modo specifico il tetto dell'antica sala-navata, il rettore Antonio Mura, parroco dal 1901 al 1922, in alcuni appunti personali, riporta la notizia che i suoi predecessori Oggiano, Ortu e Bua, lungo gli anni del loro rettorato, avevano provveduto a far sostituire, si pensa a causa della continua necessità di manutenzione, le strutture lignee con coperture in muratura.[21]
Probabilmente, quindi, furono proprio i lavori eseguiti sugli elementi di sostegno, durante la realizzazione delle cappelle laterali, nonché la sostituzione dei tetti lignei con pesanti volte in muratura, ad aver creato nel tempo le condizioni che portarono all'indebolimento dell'intera costruzione, culminato, infine, con il crollo del 16 aprile dell'anno 1870.
La chiesa, pertanto, si suppone che in modo progressivo si sia ridotta in uno stato di precarietà non solo per le ingiurie del tempo, ma soprattutto per qualche deficienza di tipo strutturale acquisita negli anni successivi alla sua erezione a causa dei diversi interventi di ampliamento e adattamento condotti, forse, da maestranze di non provata esperienza e preparazione tecnica.
Fatto sta che, nel periodo finale del rettorato del sacerdote Cristoforo Bua (parroco dal 1813 al 1864), cominciarono ad apparire nella volta del coro segnali di cedimento tanto chiari da richiedere, onde evitare l'irreparabile, pronta e decisa opera di consolidamento.
Il 17 novembre del 1864, un mese dopo il decesso del Bua, l'argomento venne portato in discussione, sindaco il notaio Rafaele Sanna, durante una seduta del Consiglio Comunale,[22] ma, al di fuori di una pronta disponibilità di facciata, sia per mancanza di fondi, sia perché l'Amministrazione, per stare al passo con i tempi, pareva più interessata a dotare il nuovo campanile[23] di un pubblico orologio,[24] non si diede inizio ad alcun lavoro di rafforzamento della struttura.
La situazione di stallo si protrasse per alcuni anni fino al 1870 quando, dietro decisione del rettore Paolo Ponti (parroco dal 1866 al 1900), trasportato il SS.mo[25] e tutti i mobili dalla chiesa pericolante all'oratorio di san Martino, il 16 aprile si diede avvio ai lavori di rafforzamento dei muri del coro.
Per quanto riguarda in modo specifico il tetto dell'antica sala-navata, il rettore Antonio Mura, parroco dal 1901 al 1922, in alcuni appunti personali, riporta la notizia che i suoi predecessori Oggiano, Ortu e Bua, lungo gli anni del loro rettorato, avevano provveduto a far sostituire, si pensa a causa della continua necessità di manutenzione, le strutture lignee con coperture in muratura.[21]
Probabilmente, quindi, furono proprio i lavori eseguiti sugli elementi di sostegno, durante la realizzazione delle cappelle laterali, nonché la sostituzione dei tetti lignei con pesanti volte in muratura, ad aver creato nel tempo le condizioni che portarono all'indebolimento dell'intera costruzione, culminato, infine, con il crollo del 16 aprile dell'anno 1870.
La chiesa, pertanto, si suppone che in modo progressivo si sia ridotta in uno stato di precarietà non solo per le ingiurie del tempo, ma soprattutto per qualche deficienza di tipo strutturale acquisita negli anni successivi alla sua erezione a causa dei diversi interventi di ampliamento e adattamento condotti, forse, da maestranze di non provata esperienza e preparazione tecnica.
Fatto sta che, nel periodo finale del rettorato del sacerdote Cristoforo Bua (parroco dal 1813 al 1864), cominciarono ad apparire nella volta del coro segnali di cedimento tanto chiari da richiedere, onde evitare l'irreparabile, pronta e decisa opera di consolidamento.
Il 17 novembre del 1864, un mese dopo il decesso del Bua, l'argomento venne portato in discussione, sindaco il notaio Rafaele Sanna, durante una seduta del Consiglio Comunale,[22] ma, al di fuori di una pronta disponibilità di facciata, sia per mancanza di fondi, sia perché l'Amministrazione, per stare al passo con i tempi, pareva più interessata a dotare il nuovo campanile[23] di un pubblico orologio,[24] non si diede inizio ad alcun lavoro di rafforzamento della struttura.
La situazione di stallo si protrasse per alcuni anni fino al 1870 quando, dietro decisione del rettore Paolo Ponti (parroco dal 1866 al 1900), trasportato il SS.mo[25] e tutti i mobili dalla chiesa pericolante all'oratorio di san Martino, il 16 aprile si diede avvio ai lavori di rafforzamento dei muri del coro.
Il crollo (16 aprile 1870)
Mentre due
muratori all'esterno lavoravano sul tetto della zona lesionata per recuperare
le tegole e altri due si trovavano all'interno dello stessa per ricevere
disposizioni dal rettore Ponti, all'improvviso, con un fragore ed una polvere
impressionanti, in un rovinio di conci e calcinacci, sprofondò l'intera
copertura del coro ed apparvero crepe preoccupanti anche nelle volte del
Rosario, di Sant'Anna e lungo il corpo stesso della chiesa.[26]
Non ci furono per fortuna vittime tra coloro che si trovavano nell'edificio[27] e
ciò fu considerato dai sacerdoti che descrissero concitati l'accaduto come un
fatto decisamente miracoloso.
Gli operai sul tetto, infatti, si salvarono solo perché, al momento del crollo stavano spostandosi, per combinazione, sui muri portanti della struttura, mentre le quattro persone all'interno si erano, senza rendersi conto della minaccia imminente, un attimo prima allontanate dall'ambiente pericolante.
L'intera costruzione, gravemente danneggiata, si presentava ormai in una situazione tale da rendere difficile, assai costoso e in pratica impensabile il suo recupero. Considerando, inoltre, che le dimensioni del luogo di culto si erano già da tempo dimostrate insufficienti a contenere, specialmente in occasione delle solennità annuali, i numerosi fedeli che desideravano seguire la messa e le altre funzioni liturgiche, il rettore Ponti prese la decisione di far demolire quasi tutto ciò che era rimasto in piedi della vecchia struttura e di dare inizio all'edificazione di una nuova chiesa più ampia e, soprattutto, più solida e duratura.
La progettazione e la direzione dei lavori vennero, pertanto, affidate all'architetto ghilarzese Carlino Marongiu, mentre per quanto riguarda la costruzione si ha notizia della partecipazione di diversi muratori, tra i quali i ghilarzesi Palmerio Cocco con il fratello Diego, Michele Agus, Lucifero Mura, Francesco Foddis, Salvatore Maxia, Francesco Spada, Antonio Maxia, Giovanni Battista Mura, Salvatore Laconi, Giovanni Antonio Cugurra, Giuseppe Porcu e Giacomo Serra.[28]
Gli operai sul tetto, infatti, si salvarono solo perché, al momento del crollo stavano spostandosi, per combinazione, sui muri portanti della struttura, mentre le quattro persone all'interno si erano, senza rendersi conto della minaccia imminente, un attimo prima allontanate dall'ambiente pericolante.
L'intera costruzione, gravemente danneggiata, si presentava ormai in una situazione tale da rendere difficile, assai costoso e in pratica impensabile il suo recupero. Considerando, inoltre, che le dimensioni del luogo di culto si erano già da tempo dimostrate insufficienti a contenere, specialmente in occasione delle solennità annuali, i numerosi fedeli che desideravano seguire la messa e le altre funzioni liturgiche, il rettore Ponti prese la decisione di far demolire quasi tutto ciò che era rimasto in piedi della vecchia struttura e di dare inizio all'edificazione di una nuova chiesa più ampia e, soprattutto, più solida e duratura.
La progettazione e la direzione dei lavori vennero, pertanto, affidate all'architetto ghilarzese Carlino Marongiu, mentre per quanto riguarda la costruzione si ha notizia della partecipazione di diversi muratori, tra i quali i ghilarzesi Palmerio Cocco con il fratello Diego, Michele Agus, Lucifero Mura, Francesco Foddis, Salvatore Maxia, Francesco Spada, Antonio Maxia, Giovanni Battista Mura, Salvatore Laconi, Giovanni Antonio Cugurra, Giuseppe Porcu e Giacomo Serra.[28]
La chiesa prima del crollo
Purtroppo
fino a questo momento non è stato possibile reperire ricostruzioni, disegni o
documentazione circostanziata sulla chiesa così come si presentava intorno alla
fine del XVI secolo.
Potrebbe essere tracciata tuttavia una pianta ideale della sua struttura partendo da elementi comuni riscontrabili in diversi luoghi di culto della stessa epoca realizzati nelle zone sarde dell'interno. Tali dati, ovviamente di carattere generale, sarebbero necessariamente da confrontare con le parti murarie di quanto rimasto dell'antico edificio e da rapportare con i pochi indizi a disposizione, in parte contenuti nei manoscritti attribuiti ai rettori Antonio Mura e Salvatorangelo Dessì.
La procedura indicata porterebbe pertanto alla ricostruzione ipotetica di seguito descritta.
Potrebbe essere tracciata tuttavia una pianta ideale della sua struttura partendo da elementi comuni riscontrabili in diversi luoghi di culto della stessa epoca realizzati nelle zone sarde dell'interno. Tali dati, ovviamente di carattere generale, sarebbero necessariamente da confrontare con le parti murarie di quanto rimasto dell'antico edificio e da rapportare con i pochi indizi a disposizione, in parte contenuti nei manoscritti attribuiti ai rettori Antonio Mura e Salvatorangelo Dessì.
La procedura indicata porterebbe pertanto alla ricostruzione ipotetica di seguito descritta.
Si potrebbero confermare in primo luogo alcuni aspetti caratterizzanti il
periodo in questione:
• Pianta
rettangolare a navata unica.
• Contrafforti laterali esterni fra i quali realizzare (anche in tempi diversi) cappelle laterali e torre campanaria.
• Abside quasi sempre a pianta quadrata, più bassa e stretta della sala principale.
• Copertura della navata con tetto ligneo a due spioventi, poggiante sulla muratura perimetrale e su archi-diaframma a sesto acuto o a tutto sesto.
• Copertura dell'abside e delle cappelle laterali con volte in muratura.
• Contrafforti laterali esterni fra i quali realizzare (anche in tempi diversi) cappelle laterali e torre campanaria.
• Abside quasi sempre a pianta quadrata, più bassa e stretta della sala principale.
• Copertura della navata con tetto ligneo a due spioventi, poggiante sulla muratura perimetrale e su archi-diaframma a sesto acuto o a tutto sesto.
• Copertura dell'abside e delle cappelle laterali con volte in muratura.
Si dovrebbero considerare poi le parti murarie rimaste in piedi e le notizie,
contenenti alcuni elementi riferibili direttamente alla struttura dell'antica chiesa, ricavate dalle fonti consultate.
Cioè:
• Esistenza della cappella laterale di Santa Croce, unica parte salvatasi dal crollo e dalla demolizione. Di essa si può tuttora ammirare l'arco in stile tardogotico catalano ed è visibile il suo originario piano di calpestio e, accanto, quello del corpo principale. Le dimensioni interne consentirebbero, in qualche modo, di ipotizzare la superficie delle altre cappelle e, sia pure con minore attendibilità, anche quella della navata centrale.
• Considerazione del «modo informe» e «disconveniente» che veniva attribuito alla pianta dell'antico edificio.[29] Le due espressioni paiono riferirsi ad una disarmonia, ad una mancata simmetria tra le parti principali del luogo di culto (cappelle e navata centrale), conseguenza certo di singoli ampliamenti tra i contrafforti laterali avvenuti, secondo esigenze contingenti, in un imprecisabile arco di tempo.
• Sostituzione, nella sala-navata, dell'ordito ligneo del tetto con una volta in muratura.
• Crollo della copertura del coro: elemento, quest'ultimo, con le pareti non sostenute da adatti rinforzi laterali d'appoggio e, quindi, il più instabile strutturalmente dell'intero edificio.
• Demolizione delle cappelle laterali di sant'Anna (?) e del Rosario, le cui volte in muratura si lesionarono in un breve lasso di tempo quando precipitò quella del coro: entrambe si trovavano evidentemente, una a sinistra e l'altra a destra, adiacenti e in qualche modo anche sostenute dalla parte sprofondata che, quando venne a mancare, provocò sulle stesse una sorta di “effetto domino”[30].
• Esistenza di due loggiati addossati alla facciata della chiesa: a sinistra quello denominato «di santa Caterina» ed a destra quello «delle Anime».
Cioè:
• Esistenza della cappella laterale di Santa Croce, unica parte salvatasi dal crollo e dalla demolizione. Di essa si può tuttora ammirare l'arco in stile tardogotico catalano ed è visibile il suo originario piano di calpestio e, accanto, quello del corpo principale. Le dimensioni interne consentirebbero, in qualche modo, di ipotizzare la superficie delle altre cappelle e, sia pure con minore attendibilità, anche quella della navata centrale.
• Considerazione del «modo informe» e «disconveniente» che veniva attribuito alla pianta dell'antico edificio.[29] Le due espressioni paiono riferirsi ad una disarmonia, ad una mancata simmetria tra le parti principali del luogo di culto (cappelle e navata centrale), conseguenza certo di singoli ampliamenti tra i contrafforti laterali avvenuti, secondo esigenze contingenti, in un imprecisabile arco di tempo.
• Sostituzione, nella sala-navata, dell'ordito ligneo del tetto con una volta in muratura.
• Crollo della copertura del coro: elemento, quest'ultimo, con le pareti non sostenute da adatti rinforzi laterali d'appoggio e, quindi, il più instabile strutturalmente dell'intero edificio.
• Demolizione delle cappelle laterali di sant'Anna (?) e del Rosario, le cui volte in muratura si lesionarono in un breve lasso di tempo quando precipitò quella del coro: entrambe si trovavano evidentemente, una a sinistra e l'altra a destra, adiacenti e in qualche modo anche sostenute dalla parte sprofondata che, quando venne a mancare, provocò sulle stesse una sorta di “effetto domino”[30].
• Esistenza di due loggiati addossati alla facciata della chiesa: a sinistra quello denominato «di santa Caterina» ed a destra quello «delle Anime».
Si propone, quindi, come risultato
finale, relativamente alla struttura dell'edificio ed all'aspetto del piazzale
antistante, una ricostruzione in linea ipotetica riferibile sia al periodo del
presunto impianto (fine XVI secolo) e sia alla situazione immediatamente
precedente la data del crollo.
Chiesa di santa Caterina d'Alessandria (fine XVI
secolo)
Ricostruzione ipotetica della struttura iniziale
Legenda
1- Coro (abside)
2- Navata (sala)
3- Arco-diaframma
4- Loggiato dell'ingresso
5- Contrafforte laterale
6- Torre campanaria
7- Area cimiteriale[31]
8- Sagrato
1- Coro (abside)
2- Navata (sala)
3- Arco-diaframma
4- Loggiato dell'ingresso
5- Contrafforte laterale
6- Torre campanaria
7- Area cimiteriale[31]
8- Sagrato
Chiesa di santa Caterina d'Alessandria
Ricostruzione ipotetica della struttura (post 1861-ante 1870)
Legenda
1- Navata
2- Coro con il retablo ligneo
3- Cappella del Rosario o di Brunello
4- Cappella di Santa Croce
5- Cappella con l'altare di sant'Anna -forse eretto dal rettore Francesco Ortu (1789-1812)
6- Arco-diaframma
7- Sagrestia
8- Oratorio con l'altare delle Anime. Dopo la costruzione dell'attuale chiesa prese il titolo di santa Lucia (probabilmente in ringraziamento per lo scampato pericolo al momento del crollo: la santa è, infatti, protettrice dei muratori) [32]
9- Campanile (antecedente all'attuale) costruito, perché inesistente, nel 1861 al tempo del rettore Bua
Un inventario redatto nel 1849 dal Comune di Abbasanta attesta, infatti, che la chiesa parrocchiale non era «provveduta del necessario Campanile»
10- Loggiato delle Anime
11- Loggiato di santa Caterina
12- Sagrato
1- Navata
2- Coro con il retablo ligneo
3- Cappella del Rosario o di Brunello
4- Cappella di Santa Croce
5- Cappella con l'altare di sant'Anna -forse eretto dal rettore Francesco Ortu (1789-1812)
6- Arco-diaframma
7- Sagrestia
8- Oratorio con l'altare delle Anime. Dopo la costruzione dell'attuale chiesa prese il titolo di santa Lucia (probabilmente in ringraziamento per lo scampato pericolo al momento del crollo: la santa è, infatti, protettrice dei muratori) [32]
9- Campanile (antecedente all'attuale) costruito, perché inesistente, nel 1861 al tempo del rettore Bua
Un inventario redatto nel 1849 dal Comune di Abbasanta attesta, infatti, che la chiesa parrocchiale non era «provveduta del necessario Campanile»
10- Loggiato delle Anime
11- Loggiato di santa Caterina
12- Sagrato
Ricostruzione ipotetica della chiesa di santa
Caterina, del sagrato e della piazza con i loggiati (post 1861- ante 1870)
Si conclude,
infine, questa ricerca, in attesa di ulteriore documentazione, con il raffronto
tra la superficie occupata dall'attuale chiesa parrocchiale e la
rappresentazione ideale in pianta della precedente: luogo sacro quest'ultimo,
come si è visto, certamente di minori dimensioni e più fragile strutturalmente,
ma pur sempre accogliente e plurisecolare testimone di sofferenze e di gioie
condivise nella comunità ecclesiale e paesana.
Perimetro della chiesa di santa Caterina d'Alessandria
alla fine del XIX secolo
Confronto tra la superficie occupata dalla struttura principale e la
ricostruzione ipotetica della chiesa precedente
Legenda
1- Il colore celeste indica l'area dell'odierno edificio
2- Il rosso evidenzia le parti ancora esistenti dell'antico fabbricato (Cappella di Santa Croce e piccola striscia del pavimento della navata). Il resto, crollato o demolito, risulta inglobato nell'attuale costruzione (celeste) o restituito agli spazi aperti circostanti (ocra, beige)
3- Campanile del 1861, edificato essendo rettore il sac. Cristoforo Bua. Verrà abbattuto e ricostruito sulle stesse fondazioni intorno agli anni '70 del secolo scorso (progetto dell'ing. Costantino Depalmas)
4- Oratorio di santa Lucia, anch'esso successivamente demolito e riedificato ampliandone la superficie
1- Il colore celeste indica l'area dell'odierno edificio
2- Il rosso evidenzia le parti ancora esistenti dell'antico fabbricato (Cappella di Santa Croce e piccola striscia del pavimento della navata). Il resto, crollato o demolito, risulta inglobato nell'attuale costruzione (celeste) o restituito agli spazi aperti circostanti (ocra, beige)
3- Campanile del 1861, edificato essendo rettore il sac. Cristoforo Bua. Verrà abbattuto e ricostruito sulle stesse fondazioni intorno agli anni '70 del secolo scorso (progetto dell'ing. Costantino Depalmas)
4- Oratorio di santa Lucia, anch'esso successivamente demolito e riedificato ampliandone la superficie
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Sa die de sa Gloriosa, 2018
[Revisione del 12 febbraio 2022]
Vincenzo Mattana
Per contatti:
abbasantesu@gmail.com
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NOTE al testo
[1] Ovvero la
cosiddetta “casa aragonese”.
[2] Come dimostra anche la porta, poi murata, che
ostruisce il passaggio tra le abitazioni delle famiglie Mureddu e Manconi.
[3] Cioè la dimora in un recente passato di proprietà
della famiglia Campra ed ora acquisita al patrimonio della collettività.
[4] Il collegamento viario in argomento, nella sua
prosecuzione verso la periferia dell'abitato, poneva il piazzale della chiesa
di Santa Caterina in diretta comunicazione, nella zona di Suiles, con la strada
costruita nel periodo imperiale romano. Unica struttura, questa, degna di
essere menzionata ancora nel medioevo col termine di strata, anche se interrotta in più zone e abbandonata tanto da
essere sostituita da percorsi alternativi, ugualmente disagevoli e spesso
impraticabili durante la stagione invernale, lungo i sentieri e le piste delle
nostre campagne.
[5] Il museo, allestito dai soci del Gruppo Archeologico
Etnografico Abbasantese, è attualmente patrimonio del Comune di Abbasanta e
affidato in gestione alla cooperativa Paleotur che cura anche i servizi
culturali e di accoglienza turistica relativi all'area archeologica del Nuraghe
Losa.
[6] In Arata-Biasi Arte
sarda, alla Tav. CCVII, nella fotografia in basso a sinistra riproducente
la base di una colonna, sul muretto sembra leggersi il numero «597» che, se
inteso come 1597, probabilmente indicava l'anno di un intervento sulla
struttura del loggiato antistante l'antica costruzione.
G.V. Arata - G. Biasi Arte sarda, Carlo Delfino editore, Sassari 1992. Ristampa anastatica dell'opera originale del 1935 pubblicata a cura degli editori Fratelli Treves di Milano.
G.V. Arata - G. Biasi Arte sarda, Carlo Delfino editore, Sassari 1992. Ristampa anastatica dell'opera originale del 1935 pubblicata a cura degli editori Fratelli Treves di Milano.
[7] Sulla presenza di loggiati, ora non più esistenti,
intorno alla piazza della chiesa del XVI secolo si hanno i seguenti documenti.
• - Atto notarile di cessione del rettore Cristoforo Bua in favore della chiesa parrocchiale: «... quelle quattro botteghe annesse al suddetto corpo di case che sono dirimpetto al piazzale di detta Chiesa Parrocchiale ...».
Il corpo di case citato nell'Atto corrisponde all'attuale casa parrocchiale.
Cfr. Pro Loco Abbasanta, Chiesa Parrocchiale S. Caterina d'Alessandria nel centenario della consacrazione (1893-1993), Tipografia Ghilarzese 1993, pp. 29-31.
• - Delibera del Consiglio Comunale di Abbasanta del 4 settembre 1851: «... la Parochia nell'occasione della fiera della Patrona ritrae qualche utile da sette Botteghe dalla medesima possiedute all'uso di questi villaggi dai mercadanti che vi ripongono le loro mercanzie, i quali per cadauna Bottega sogliono corrispondere non meno di lire nuove quattro e C.mi ottanta ...». Archivio Comunale di Abbasanta.
• - Libro Storico e Archivio Parrocchiale di Abbasanta:
si desume, in sintesi, che ai due lati del portone d'ingresso della chiesa esistevano due portici, denominati a sinistra «di santa Caterina» e a destra «delle Anime». Altri due loggiati si trovavano pure nella parte della casa parrocchiale che dava sul piazzale ed al posto di un minuscolo e rustico locale, ora demolito, all'inizio del sentiero che scendeva verso Sos molinos (oggi Via Baden-Powell).
• - Atto notarile di cessione del rettore Cristoforo Bua in favore della chiesa parrocchiale: «... quelle quattro botteghe annesse al suddetto corpo di case che sono dirimpetto al piazzale di detta Chiesa Parrocchiale ...».
Il corpo di case citato nell'Atto corrisponde all'attuale casa parrocchiale.
Cfr. Pro Loco Abbasanta, Chiesa Parrocchiale S. Caterina d'Alessandria nel centenario della consacrazione (1893-1993), Tipografia Ghilarzese 1993, pp. 29-31.
• - Delibera del Consiglio Comunale di Abbasanta del 4 settembre 1851: «... la Parochia nell'occasione della fiera della Patrona ritrae qualche utile da sette Botteghe dalla medesima possiedute all'uso di questi villaggi dai mercadanti che vi ripongono le loro mercanzie, i quali per cadauna Bottega sogliono corrispondere non meno di lire nuove quattro e C.mi ottanta ...». Archivio Comunale di Abbasanta.
• - Libro Storico e Archivio Parrocchiale di Abbasanta:
si desume, in sintesi, che ai due lati del portone d'ingresso della chiesa esistevano due portici, denominati a sinistra «di santa Caterina» e a destra «delle Anime». Altri due loggiati si trovavano pure nella parte della casa parrocchiale che dava sul piazzale ed al posto di un minuscolo e rustico locale, ora demolito, all'inizio del sentiero che scendeva verso Sos molinos (oggi Via Baden-Powell).
La fotografia rappresenta il
piccolo edificio appena citato, costruito, come si suppone, sulle rovine di un
più antico loggiato.
Il minuscolo locale dell'immagine
precedente in una fotografia del 1996. Le frecce indicano il punto in cui la
muratura, realizzata verosimilmente dopo la distruzione del loggiato, si
appoggiava (senza incastri evidenti) all'originario muro posteriore dello stesso.
[8] Tale
denominazione non appare appropriata da un punto di vista temporale, poiché la
costruzione, come tante altre dello stesso periodo, venne realizzata, dopo più di un secolo dalla fine della
dominazione della Corona Aragonese,
quando la Sardegna si trovava ormai pienamente sotto quella della Corona di Spagna. Infatti, secondo una
prassi ormai consolidata della storiografia tradizionale, il governo iberico in
Sardegna si suole dividere in due periodi: l'età catalano-aragonese, che
va dal 1324 al 1479, e l'età spagnola, che va dal 1479 al 1708.
Inoltre, se si tiene conto del fatto che la Corona d'Aragona, dalla sua costituzione al passaggio di potere in favore di quella spagnola, fu sempre retta fino al 1410 da sovrani catalani; che catalana fu la capitale della Corona, Barcellona; se si considera, specialmente, che catalani furono tutti gli elementi culturali, compresa la lingua, e artistici, come l'architettura, che questi dominatori diffusero in Sardegna, la definizione “casa aragonese” attribuita comunemente all'edificio abbasantese si palesa ancor più ingiustificata e fuorviante.
Inoltre, se si tiene conto del fatto che la Corona d'Aragona, dalla sua costituzione al passaggio di potere in favore di quella spagnola, fu sempre retta fino al 1410 da sovrani catalani; che catalana fu la capitale della Corona, Barcellona; se si considera, specialmente, che catalani furono tutti gli elementi culturali, compresa la lingua, e artistici, come l'architettura, che questi dominatori diffusero in Sardegna, la definizione “casa aragonese” attribuita comunemente all'edificio abbasantese si palesa ancor più ingiustificata e fuorviante.
[9] Negli
ultimi decenni del XVI secolo erano operanti nel Marghine e forse in altri
paesi del centro-Sardegna le maestranze guidate da Miguel Puig. Costui il 7
marzo del 1573 ebbe l'incarico dai maiorales
della villa de Macomer, tra i quali
Girolamo Delitala, di sopraelevare il campanile della chiesa parrocchiale
dedicata a san Pantaleo.
Al maistru Migueli Puig picapedreri residente et domiciliadu in sa villa de Bolottana sono attribuite, inoltre, la chiesa rurale di san Bachisio (1597) e diversi interventi nella parrocchiale di san Pietro (1600) a Bolotana; alcuni individuano la sua mano anche nel campanile dell'antica chiesa di sant'Andrea apostolo ad Orani e nelle decorazioni del portale della chiesa parrocchiale di Bortigali (1584).
Il Puig, all'interno della chiesa di san Pantaleo, su incarico di Girolamo Delitala, costruì nel 1584 la cappella di san Giovanni Battista nella quale, datata 1599, si osserva l'insegna gentilizia dell'importante committente. Negli ultimi anni del secolo, Girolamo Delitala, insignito della nobiltà, fu nominato cavallerizo mayor della Real Tanca e, verosimilmente, per tale circostanza fu un personaggio influente nelle decisioni che interessarono la comunità abbasantese. Non si hanno prove documentarie al riguardo, ma è possibile ipotizzare che, dietro un suo intervento, in quel periodo sia stata affidata alle maestranze di Miguel Puig anche l'erezione della chiesa di santa Caterina: struttura della quale resta, all'interno, passando attraverso l'ingresso situato sul lato destro dell'edificio attuale, un arco acuto di chiaro stile tardogotico catalano. All'opera dello stesso Puig potrebbero risalire, inoltre, le costruzioni con loggiato anteriore disposte attorno al piazzale e, quindi, anche l'antico edificio che di tale complesso edilizio era parte importante.
In assenza di notizie certe, non è tuttavia da trascurare il fatto che agli inizi del 1600 altre imprese artigiane aprirono cantieri in località vicine e potrebbero, quindi, aver operato anche ad Abbasanta. Dal 1632 è documentata l'attività dei maestri Antoni Pinna e Iuaquinu de Otieri che lavorarono nella chiesa di santa Maria di Ossolo a Bidonì e, ancora, dello stesso Antoni Pinna che, con maestranze locali, realizzò la chiesa di san Sebastiano a Sorradile.
Al maistru Migueli Puig picapedreri residente et domiciliadu in sa villa de Bolottana sono attribuite, inoltre, la chiesa rurale di san Bachisio (1597) e diversi interventi nella parrocchiale di san Pietro (1600) a Bolotana; alcuni individuano la sua mano anche nel campanile dell'antica chiesa di sant'Andrea apostolo ad Orani e nelle decorazioni del portale della chiesa parrocchiale di Bortigali (1584).
Il Puig, all'interno della chiesa di san Pantaleo, su incarico di Girolamo Delitala, costruì nel 1584 la cappella di san Giovanni Battista nella quale, datata 1599, si osserva l'insegna gentilizia dell'importante committente. Negli ultimi anni del secolo, Girolamo Delitala, insignito della nobiltà, fu nominato cavallerizo mayor della Real Tanca e, verosimilmente, per tale circostanza fu un personaggio influente nelle decisioni che interessarono la comunità abbasantese. Non si hanno prove documentarie al riguardo, ma è possibile ipotizzare che, dietro un suo intervento, in quel periodo sia stata affidata alle maestranze di Miguel Puig anche l'erezione della chiesa di santa Caterina: struttura della quale resta, all'interno, passando attraverso l'ingresso situato sul lato destro dell'edificio attuale, un arco acuto di chiaro stile tardogotico catalano. All'opera dello stesso Puig potrebbero risalire, inoltre, le costruzioni con loggiato anteriore disposte attorno al piazzale e, quindi, anche l'antico edificio che di tale complesso edilizio era parte importante.
In assenza di notizie certe, non è tuttavia da trascurare il fatto che agli inizi del 1600 altre imprese artigiane aprirono cantieri in località vicine e potrebbero, quindi, aver operato anche ad Abbasanta. Dal 1632 è documentata l'attività dei maestri Antoni Pinna e Iuaquinu de Otieri che lavorarono nella chiesa di santa Maria di Ossolo a Bidonì e, ancora, dello stesso Antoni Pinna che, con maestranze locali, realizzò la chiesa di san Sebastiano a Sorradile.
[10] Il termine “Corona” indica in questo caso
un'aggregazione istituzionale di Stati tra loro distinti, ma posti sotto il governo di un medesimo sovrano.
La Corona d'Aragona nacque nel 1137/62 dall'unione tra il Principato di Catalogna (politicamente dominante) ed il Regno di Aragona: a questi Stati si unirono nel 1238 il Regno di Valenza, nel 1282 il Regno di Sicilia, nel 1324 il Regno di Sardegna, nel 1349 il Regno di Maiorca, nel 1443 il Regno di Napoli e, per un breve periodo, altri Stati minori. Dal 1479 la Corona d'Aragona unendosi a quella di Castiglia formò la Corona di Spagna.
Cfr. Francesco Cesare Casula, Dizionario Storico Sardo, Carlo Delfino editore, Sassari 2001, pp. 68 e seg., p. 469.
La Corona d'Aragona nacque nel 1137/62 dall'unione tra il Principato di Catalogna (politicamente dominante) ed il Regno di Aragona: a questi Stati si unirono nel 1238 il Regno di Valenza, nel 1282 il Regno di Sicilia, nel 1324 il Regno di Sardegna, nel 1349 il Regno di Maiorca, nel 1443 il Regno di Napoli e, per un breve periodo, altri Stati minori. Dal 1479 la Corona d'Aragona unendosi a quella di Castiglia formò la Corona di Spagna.
Cfr. Francesco Cesare Casula, Dizionario Storico Sardo, Carlo Delfino editore, Sassari 2001, pp. 68 e seg., p. 469.
[11] Gli storici ricordano che nel 1569 e negli anni
immediatamente successivi una terribile carestia interessò tutta la Sardegna
rendendo problematico l'approvvigionamento del grano. Nel 1571 si verificò
un'invasione di cavallette e una moria di bestiame, seguita nel 1580 e nel
1582-1583 dalla peste che periodicamente ricompariva nell'isola.
[12]
Abbasanta, secondo il censimento indetto dal viceré Miguel de Moncada, nel 1589
contava 443 abitanti, 241 maschi e 202 femmine, distribuiti in 128 fuochi, cioè
famiglie.
Cfr. Giuseppe Serri “Su un censimento della popolazione sarda del XVI secolo”, in Bruno Anatra-Giuseppe Puggioni-Giuseppe Serri Storia della popolazione in Sardegna nell'epoca moderna AM&D Edizioni, Cagliari 1997, pp.113-121.
Cfr. Giuseppe Serri “Su un censimento della popolazione sarda del XVI secolo”, in Bruno Anatra-Giuseppe Puggioni-Giuseppe Serri Storia della popolazione in Sardegna nell'epoca moderna AM&D Edizioni, Cagliari 1997, pp.113-121.
[13] Una delle famiglie più facoltose fu certamente quella
dei Contona (forse, Contini), Gianuario e fratello, che, proprietari di mulini,
di bestiame e possessori di vaste estensioni di pascoli, dovette fronteggiare
nel 1545 una lite contro Ghilarza sull'uso della cosiddetta cora. La buona disponibilità finanziaria
del nucleo familiare consentì a Gianuario, tra l'altro, di anticipare le spese
addossate a tutta la comunità abbasantese al termine dei lavori (trasferta da
Cagliari e verifiche nel territorio di Parte Ocier Reale) di una commissione
viceregia (1551) incaricata di definire in modo chiaro i confini tra i diversi
villaggi appartenenti al demanio regio e quelli dei Canales concessi in feudo al cagliaritano Pere Mora.
Cfr. Maria Manconi Depalmas, “Contestazioni territoriali tra le comunità di Parte Ocier nel secolo XVI”, in Quaderni Bolotanesi n. 25, Edizioni Passato e Presente, Bolotana 1999, pp. 286, 287.
Cfr. Maria Manconi Depalmas, “Contestazioni territoriali tra le comunità di Parte Ocier nel secolo XVI”, in Quaderni Bolotanesi n. 25, Edizioni Passato e Presente, Bolotana 1999, pp. 286, 287.
[14] L'arco tardogotico-catalano della chiesa di santa
Caterina di Abbasanta ed i portici delle case coeve disposte attorno al suo
piazzale sono somiglianti rispettivamente agli archi-diaframma ed al loggiato
della chiesa di san Basilio di Nughedu Santa Vittoria; esempi di colonne
analoghe si trovano anche in un edificio privato situato
all'interno dell'abitato di Neoneli.
[15] I tori sono
modanature convesse di profilo pressappoco semicircolare, poste alla base di una
colonna come elemento sporgente. Le gole
sono, invece, modanature concave a sezione semicircolare, poste alla base di
una colonna come elementi rientranti intermedi tra le sporgenze dei tori.
[16] Riproducenti, cioè, elementi tratti dal mondo
vegetale.
[17] Si tratta della chiusura della porta situata tra le
abitazioni delle famiglie Mureddu e Manconi.
[18] Probabilmente anche durante il periodo giudicale in
questi stessi luoghi doveva svolgersi la vita comunitaria della popolazione
abbasantese, tra la prima chiesa medievale di santa Caterina e le strutture
(ovviamente diverse dalle costruzioni di fine XVI secolo oggetto di questa
ricerca) che ospitavano gli organi amministrativi e giudiziari del territorio.
Anzi, intorno al 1388, era quasi sicuramente questo il sito dove convenivano i
rappresentanti delle ville di Paule, Nurgillo, Aidu, Ruinas, Sedilo, Gulcier, Cuuri, Solli, Tadasuni, Usthei, Guilarci, Urri, Sella, Borone, Domos Noas e,
naturalmente, di Abba-Santa (capoluogo
del Guilcier) per partecipare alla corona
de curadoria presieduta dal curatore Joannes
Pulighe, che nell'anno appena specificato aveva verosimilmente proprio di
fronte alla piazza la sua abitazione e luogo di rappresentanza, non lontano,
forse, da quella del maiore de villa di
Abbasanta Gonnario de Zori.
[19] Giorgio Farris, “Chenale”, in Quaderni Oristanesi, 21/22, Novembre 1989, Editrice “Sa
Porta”, Oristano, pp. 78, 79.
[20] Le citazioni più remote (anche se la struttura si
pensa sia ancora più antica) sono del 1716, anno in cui vennero spese cifre
considerevoli per il restauro dell'opera muraria e delle tre campane di cui era
dotata [Libri di amministrazione
parrocchiale (1669-1799), Regesto a cura di Lucio Pinna, inedito, Abbasanta
2005, pp. 12 e 13].
[21] «...Oggiano, Ortu e Bua avevano tolto il tetto ad
impalcatura di legno e sostituite le volte in muratura.»
Cfr. Angelo Quartu, “Ricordi storici e tradizionali sul culto di santa Caterina v. m. in Abbasanta, tratti dagli appunti lasciati dal rettore parrocchiale Antonio Mura (1901-1922)”, in Testimonianze della religiosità popolare in Abbasanta nella seconda metà dell'Ottocento, ID:1611243 www.lulu.com, p.105.
Cfr. Angelo Quartu, “Ricordi storici e tradizionali sul culto di santa Caterina v. m. in Abbasanta, tratti dagli appunti lasciati dal rettore parrocchiale Antonio Mura (1901-1922)”, in Testimonianze della religiosità popolare in Abbasanta nella seconda metà dell'Ottocento, ID:1611243 www.lulu.com, p.105.
[22] «Il Sig. Sindaco riferisce che il Consigliere Putzolu
esponeva che ... la volta del coro di questa Chiesa Parrocchiale avrebbe marcato
notabili fessure d'apportare fondato timore di poter crollare, riguardandosi
massime che da due lati trovasi isolato dall'appoggio d'altro fabbricato ...».
Nel verbale viene, inoltre, evidenziato il «modo informe» acquisito, certamente nel tempo, dalla struttura della chiesa e il fatto che, essendo di piccole dimensioni, non riusciva più a contenere i fedeli durante le funzioni religiose, «andando la popolazione sempre in notabile aumento».
Cfr. Comune di Abbasanta, Paolo Ponti, Tipografia Ghilarzese, 2000, pp. 14, 15.
Nel verbale viene, inoltre, evidenziato il «modo informe» acquisito, certamente nel tempo, dalla struttura della chiesa e il fatto che, essendo di piccole dimensioni, non riusciva più a contenere i fedeli durante le funzioni religiose, «andando la popolazione sempre in notabile aumento».
Cfr. Comune di Abbasanta, Paolo Ponti, Tipografia Ghilarzese, 2000, pp. 14, 15.
[23] Dal Libro Storico della Parrocchia di Abbasanta si apprende la notizia che il campanile, precedente all'attuale, venne fatto costruire nel
1861 essendo rettore Cristoforo Bua; prima di tale anno la mancanza della
struttura è direttamente confermata da un Inventario del Comune di Abbasanta,
datato 25 agosto 1849, secondo il quale la chiesa parrocchiale non era allora
«provveduta del necessario Campanile».
Cfr. Angelo Quartu, La montagna reale di Abbasanta nel secolo XIX, ID:804670 www.lulu.com, pp. 99-101.
Cfr. Angelo Quartu, La montagna reale di Abbasanta nel secolo XIX, ID:804670 www.lulu.com, pp. 99-101.
[24] L'orologio, acquistato con i fondi della Parrocchia
dall'artigiano sassarese Matteo Castiglia, venne installato sul campanile Bua
dal muratore Baingio Diana nel mese di giugno del 1865 e affidato per il
funzionamento, dietro compenso da parte del Comune, al sacrestano Bernardino
Vinci (Archivio Comunale di Abbasanta).
[25] Cioè le ostie consacrate custodite nel tabernacolo.
[26] Cfr. Angelo Quartu, “Ricordi storici e tradizionali
sul culto di santa Caterina v. m. in Abbasanta, tratti dagli appunti lasciati
dal rettore parrocchiale Antonio Mura (1901-1922)”, in Testimonianze della religiosità popolare in Abbasanta nella seconda
metà dell'Ottocento, cit., pp. 98-107.
[27] Il rettore Paolo Ponti, il viceparroco Matteo
Zecchino e i quattro muratori.
[28] Manlio Manca “Artigiani della pietra”, in Basalto, a cura del Circolo Scacchistico
Guilcer, Iskra Edizioni, Ghilarza 2000, p. 79.
[29] Cfr. Comune di Abbasanta, Paolo Ponti, cit., pp. 14, 15.
[30] «In tal modo tutte le altre volte del Rosario, di
Sant'Anna, corpo di chiesa s'affilarono e si vedette la necessità di demolire
tutto e il pericolo in cui s'era.»
Cfr. Angelo Quartu, “Ricordi storici e tradizionali sul culto di santa Caterina v. m. in Abbasanta, tratti dagli appunti lasciati dal rettore parrocchiale Antonio Mura (1901-1922)”, in Testimonianze della religiosità popolare in Abbasanta nella seconda metà dell'Ottocento, cit., p. 105.
Cfr. Angelo Quartu, “Ricordi storici e tradizionali sul culto di santa Caterina v. m. in Abbasanta, tratti dagli appunti lasciati dal rettore parrocchiale Antonio Mura (1901-1922)”, in Testimonianze della religiosità popolare in Abbasanta nella seconda metà dell'Ottocento, cit., p. 105.
[N.B.: s'affilarono, prestito dall'idioma locale per ‘si fessurarono’, ‘si lesionarono’].
[31] I documenti forniscono notizie anche sull'antico
luogo ove venivano tumulati i defunti. Le sepolture in origine avvenivano
soprattutto all'aperto in fosse terragne nel cimitero comune tutt'intorno alla
chiesa di santa Caterina, mentre sotto il pavimento lastricato dentro lo stesso
edificio di culto venivano forse accolti i cadaveri dei benefattori o dei personaggi
più in vista della comunità.
Da una ricerca di Lucio Pinna si apprende che verso il 1789 vennero proibite le inumazioni all'interno della parrocchia e fu adibita allo scopo la chiesa di santa Maria [Libri di amministrazione parrocchiale (1669-1799), cit., Regesto a cura di Lucio Pinna, inedito, Abbasanta 2005, p. 10]. Continuò, invece, ad essere utilizzato il cimitero esterno attorno alla chiesa principale (Santa Caterina), fino al trasferimento definitivo, negli anni dal 1845 al 1849, nel nuovo (attuale) Camposanto, realizzato in Sa corte 'e sant'Amada.
Da una ricerca di Lucio Pinna si apprende che verso il 1789 vennero proibite le inumazioni all'interno della parrocchia e fu adibita allo scopo la chiesa di santa Maria [Libri di amministrazione parrocchiale (1669-1799), cit., Regesto a cura di Lucio Pinna, inedito, Abbasanta 2005, p. 10]. Continuò, invece, ad essere utilizzato il cimitero esterno attorno alla chiesa principale (Santa Caterina), fino al trasferimento definitivo, negli anni dal 1845 al 1849, nel nuovo (attuale) Camposanto, realizzato in Sa corte 'e sant'Amada.
[32] «L'altare delle anime prima era nell'oratorio
proprio, ora riattato e ribenedetto col titolo di Santa Lucia.»
Cfr. Angelo Quartu, “Ricordi storici e tradizionali sul culto di santa Caterina v. m. in Abbasanta, tratti dagli appunti lasciati dal rettore parrocchiale Antonio Mura (1901-1922)”, in Testimonianze della religiosità popolare in Abbasanta nella seconda metà dell'Ottocento, cit., p. 107.
Cfr. Angelo Quartu, “Ricordi storici e tradizionali sul culto di santa Caterina v. m. in Abbasanta, tratti dagli appunti lasciati dal rettore parrocchiale Antonio Mura (1901-1922)”, in Testimonianze della religiosità popolare in Abbasanta nella seconda metà dell'Ottocento, cit., p. 107.
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