lunedì 29 maggio 2023

Antiche urne cinerarie

 

ANTICHE URNE CINERARIE

DEL TERRITORIO ABBASANTESE




        Durante la lunga e significativa presenza romana in Sardegna[1] nell'attuale territorio di Abbasanta, come nelle altre zone produttive dell'isola, sorsero e operarono piccoli rustici insediamenti[2] che si sovrapposero spesso, nella reminiscenza di un passato eroico e in un desiderio di maggior sicurezza, alle rovine di precedenti dimore costruite attorno a ciò che restava della struttura degli antichi nuraghi.[3] La presenza di questi sparsi raggruppamenti umani era strettamente inserita nel complesso sistema organizzativo posto in essere dall'amministrazione centrale prima repubblicana e poi imperiale al fine di garantire profitto sicuro ai possessori delle terre date in concessione, rifornimento di cereali (soprattutto frumento) e di altri prodotti naturali alla capitale dello stato e, ovviamente, riscossione di alti proventi per le casse governative. Il conseguimento di tali obiettivi era assicurato dall'attività di coordinamento esercitata dai funzionari insediati e operanti nei centri più importanti e, in modo concreto, dal controllo e dal deciso intervento delle coorti dislocate nelle zone più nevralgiche e redditizie del territorio isolano.    
        Nel tardo periodo repubblicano e nei primi due secoli dell'impero la forza militare inviata nell'isola da Roma risultava costituita da contingenti di truppe cosiddette “ausiliarie”, composte da individui privi della cittadinanza romana, provenienti da popoli ormai assoggettati ma considerati, in un patto di fiducia, alleati. I reparti, per gli interventi iniziali in terra sarda, pare fossero arruolati di volta in volta per la sola durata delle singole campagne militari, mentre nella successiva fase imperiale venivano reclutati e mantenuti in servizio permanente, ricevendo in compenso, al momento del congedo, tra altri riconoscimenti, la cittadinanza, e quindi la possibilità di legalizzare un'eventuale unione affettiva irregolare
[4], un premio in denaro o un terreno da coltivare.     
        Alla luce soprattutto di quest'ultimo particolare e in generale di quanto premesso, potrebbe essere ipotizzata, pertanto, dal punto di vista demografico, la stabilizzazione nel territorio di veterani soprattutto Italici, ma anche appartenenti ad altre regioni circummediterranee ed europee, che una volta liberi dagli obblighi di ingaggio si sarebbero integrati nel resto degli abitanti portando e diffondendo, generazione dopo generazione, nuove usanze, costumi, concezioni e pratiche religiose. Con la parte militare rimasta nell'isola occorrerebbe, inoltre, considerare tutti gli individui trasferiti in Sardegna durante l'occupazione romana come mano d'opera agricola impegnata nella coltura dei campi e nell'allevamento del bestiame e quindi gli addetti al commercio ed alle attività artigianali e, infine, trafficanti e avventurieri di ogni specie alla ricerca di fortuna e guadagni.
[5]       



        È in tale quadro che, sulla base delle conoscenze attuali, gli storici collocano, nel territorio abbasantese, la presenza di urne connesse, in ambito funerario, al rituale della cremazione. Queste, in genere semplici espressioni artistiche di gruppi sociali in prevalenza rurali, erano disposte presso gli insediamenti costituiti da poche e povere dimore nel sito giudicato maggiormente evocativo dagli abitanti del luogo o riunite, nei villaggi più importanti, in una vera e propria necropoli, cioè in un'area considerata idonea, situata al di fuori dell'abitato.[6] Allo scopo erano utilizzati banchi di roccia affioranti o massi trasportati anche da altre zone. Nella parte superficiale dello strato roccioso o nel blocco basaltico, all'esterno opportunamente sbozzato e lavorato, venivano realizzate piccole cavità ben rifinite di forma rettangolare, quadrata, ovale o circolare, profonde e larghe quanto necessario a contenere le ceneri e con esse i frammenti combusti dei cadaveri. Nell'interno accanto ai resti spesso si poneva una lucerna che doveva illuminare il passaggio al mondo dei morti e, su un piccolo gradino, una moneta[7] per pagare a Caronte[8], secondo antiche credenze di Greci, Etruschi e Romani, l'attraversamento dell'Acheronte, il fiume angoscioso del dolore o, per alcuni autori, il superamento dei meandri paludosi dello Stige.[9]       

       














L'incavatura era quindi ricoperta da un cippo, un masso lavorato in modo da incastrarsi come un coperchio sull'elemento sottostante e superiormente spesso rifinito con lo scalpello a rappresentare un segnacolo, cioè l'aspetto più visibile o monumentale della semplice struttura complessiva.  
cinerari ritrovati nel territorio abbasantese, a differenza di altri individuati in località circostanti, sembrerebbero, per quanto si conosce, tutti anepigrafi, cioè privi di un'iscrizione visibile tracciata sul frontale, e si presentano in tre tipologie[10] che paiono esprimere usi e costumi diversi nell'ambito della vita comunitaria dei piccoli centri umani di pertinenza.   

La maggioranza degli studiosi ipotizza la loro comparsa tra il I ed il II secolo d.C.[11], fase storica imperiale romana alla quale si ritiene appartengano il cippo “a capanna”, riproducente simbolicamente la forma di un'abitazione con la copertura a due spioventi, e il cippo cosiddetto “a bauletto”, cioè arrotondato nella parte superiore.[12]     












       Le tombe, verosimilmente, erano tutte opera di artigiani locali, cioè di modesti scalpellini che realizzavano i loro lavori dietro richiesta dei membri delle comunità del circondario in cui erano inseriti: una committenza certo indigena, ma anche multietnica, che recepiva gli influssi esterni rielaborandoli e sovrapponendoli comunque alla tradizione isolana. Ne risultavano produzioni particolari, frutto di un sincretismo, un'osmosi tra elementi del substrato culturale prelatino e alcuni aspetti propri del mondo romano, italico e, più in generale, mediterraneo, ma fors'anche continentale europeo.[13]       
La tipologia delle urne cinerarie del territorio abbasantese e di alcune zone limitrofe, così come si può osservare esternamente, in ogni caso non sembrerebbe essere, nel precedente periodo punico, documentata a Cartagine o nei luoghi sardi dove fu più concentrata la permanenza di individui provenienti da tale città; né d'altra parte parrebbe in seguito riscontrarsi, oltre appunto alcune località del centro-Sardegna, nelle usanze di Roma e nelle tombe delle sue aree cimiteriali suburbane o dei siti più densamente popolati e urbanizzati dell'isola. Gli abitanti di entrambe le capitali, infatti, pur seguendo nelle loro tradizioni anche il rituale funerario della cremazione, per la conservazione delle ceneri espressero soluzioni diverse, a volte più complesse o artisticamente elaborate.


Abbasanta, 13 maggio 2023 

Vincenzo Mattana 

Per contatti:   
abbasantesu@gmail.com

 


Note     


[1] La Sardegna divenne almeno nominalmente romana a partire dal 238 a.C.. L'Isola apparteneva dai primi decenni del VI secolo a.C. ai Cartaginesi che, seguendo il loro piano di espansione nell'area mediterranea, erano intervenuti militarmente per sostenere gli interessi delle città fenicie sorte e cresciute lungo la costa.        
Molti aspetti della complessa fase storica prima punica e poi romana perdurarono nell'evoluzione delle popolazioni sarde ben oltre la fine delle due dominazioni: si conservarono e furono adattati localmente alla mentalità, ai costumi, alle tradizioni e alle esigenze particolari delle diverse comunità. 

[2] Forse questi villaggi, quasi tutti esistenti anche nell'ultimo periodo della precedente dominazione punica, facevano parte di un unico distretto rurale (pagus) ed i loro abitanti, oggi denominabili genericamente “sardi”, erano in realtà discendenti e quindi commistione e frutto delle diverse etnie che, dal Neolitico in poi, dominazione punica e romana comprese, si erano stabilite in Sardegna.    

[3] Muta testimonianza questi ultimi di una grande civiltà da tempo giunta all'epilogo del suo sviluppo e poi gradualmente indebolita dall'arrivo di altre genti, agitata da nuovi e pressanti fermenti culturali e sociali, logorata infine dalla crescente invadenza fenicia e, di seguito, sopraffatta dalla potenza cartaginese.      

[4] In genere, per ovvie esigenze connesse alla vita ed alla disciplina militare, non era concessa ai componenti delle coorti ausiliarie la facoltà durante il servizio attivo di contrarre un matrimonio giuridicamente valido. Ciò non poteva impedire, tuttavia, che sorgessero simpatie ed anche rapporti affettivi clandestini con alcune ragazze delle località di stanziamento ed operative.  

[5] Oltre a ciò, tra i molteplici apporti umani che interessarono la Sardegna già nella precedente fase punica, occorre considerare, con la significativa permanenza di deportati libici, la ripetuta presenza di eserciti mercenari ingaggiati dai Cartaginesi durante le imprese militari condotte nell'Isola. Si trattava di soldataglia, in diversi casi si suppone accompagnata da mogli e figli, in genere scelta tra gli Iberi, i Liguri, i Celti, i Greci, i Libici e i Numidi che, terminata la prestazione al servizio della città nordafricana, a volte decideva di restare nei territori sardi in cui si era consolidata la presenza punica, integrandosi quindi gradualmente nel resto della popolazione.       

[6] È ciò che può essere osservato nel sito di Losa, oltre la cinta muraria che racchiude il villaggio e il grandioso bastione trilobato, con numerosi cinerari scavati nello strato roccioso emergente e disposti, secondo l'antica consuetudine, entro un'unica area al di fuori dell'abitato.        
Altre urne sono state individuate, da un'accurata ricerca condotta dall'Associazione Archeologica Etnografica Abbasantese, nei pressi di piccoli insediamenti localizzati nelle località di Bena Jórghi, Tzuras-Trossáela, Cannas, Perda crappída-Sa tanchítta, Mura 'e láuros, Mura ílighes e Áiga.   
Cfr. Associazione Archeologica Etnografica Abbasantese Carta Archeologica del territorio di Abbasanta, Scala 1:10.000, Abbasanta 30 Novembre 1988.

[7] In una di queste tombe, presso la necropoli di Losa, scrive il Taramelli, venne trovata una moneta in bronzo dell'imperatore Adriano, al governo di Roma dal 117 al 138: circostanza questa che avvalorerebbe la tesi che propone il I ed il II sec. d.C. quale periodo di inquadramento temporale di molti reperti abbasantesi.       
Cfr.- A.Taramelli, Notizie Scavi-1916, pag 254, fig. 14, 15. Cfr. anche dello stesso autore, Allegato alla Carta Archeologica della Sardegna, R.Istituto Geografico Militare, Firenze 1935-40, p. 122, ristampa Carlo Delfino Editore, p.400 n. 80.a.  

[8] Caronte, figura immaginaria delle credenze religiose dell'antica Grecia, era descritto in genere come un vecchio dall'aspetto ripugnante e dal cattivo carattere che, pur accogliendo sulla propria zattera solo le ombre che avessero avuto un'adeguata sepoltura, pretendeva comunque un obolo per il suo lavoro.    

[9] Il mito di Caronte si diffuse anticamente in tutto il mondo mediterraneo. Pure i popoli nordafricani di certo ne vennero a conoscenza, ma verosimilmente fu assorbito solo in modo marginale dalle credenze puniche sull'aldilà. Anche nelle tombe cartaginesi accosto ai defunti venivano, infatti, lasciate delle monete, ma esse, spesso forate e trasformate in monili, erano in genere considerate semplicemente degli amuleti, dei talismani contro le forze negative che i morti avrebbero potuto incontrare nel regno delle tenebre, oppure formavano veri e propri gruzzoletti a “corredo personale” del defunto nella “seconda vita”.        
Alcune urne, prive del piccolo ripiano per la deposizione della moneta, potrebbero quindi appartenere ad un'area culturale non influenzata dal mito caronteo e, verosimilmente, essere collegate ad espressioni e credenze proprie di qualche specifica etnia del composito mondo, prima punico e poi romano, stanziato nell'Isola.        
In tutti i casi, per precisione espositiva e al di là di ogni ipotizzata o certa collocazione temporale, non si dovrebbe parlare di “tombe puniche” o “tombe romane”, ma eventualmente di tombe risalenti all'ultimo periodo della dominazione punica, o alla fase tardo repubblicana romana, o ancora ai primi due secoli dell'Impero romano.   

[10] Schematicamente è possibile, riferendosi all'aspetto esteriore dei cippi, riconoscere delle forme definibili “a capanna”, “a bauletto” e altre lasciate, così come si presentavano in natura, non lavorate.      

[11] Per quanto riguarda, comunque, la datazione di diversi reperti abbasantesi, per correttezza metodologica, non è possibile, sulla base degli elementi oggettivi a disposizione, escludere completamente la loro appartenenza ad un periodo precedente riconducibile approssimativamente alla fase finale della dominazione punica o, se si vuole, a quella tardo repubblicana dello stato romano.   

[12] Una segnalazione a parte meritano, come terza tipologia poc'anzi accennata, diversi cinerari che mostrano realizzato l'incàvo per la connessione all'elemento inferiore della tomba, lasciando però l'esterno della parte superiore grezza, non lavorata. Potrebbe trattarsi di opera non portata a termine, oppure verosimilmente di scelta precisa del committente collegata magari, come anche nel caso del cippo “a bauletto”, all'idea del tumulo che ricopre il defunto e quindi al desiderio di protezione e fors'anche di rinascita che il “ventre” di Madre Terra, sin dall'alba dell'umanità neolitica, sembrava assicurare ad ogni defunto.    


   



 

[13] Nel corso dei secoli, svanito ormai ogni ricordo, praticamente tutte le urne vennero scoperchiate, profanate e il loro contenuto disperso da chi sperava magari di recuperare qualche oggetto prezioso.