ANTICHE URNE CINERARIE
DEL TERRITORIO ABBASANTESE
Durante la lunga e significativa presenza romana in
Sardegna[1] nell'attuale territorio di Abbasanta, come nelle
altre zone produttive dell'isola, sorsero e operarono piccoli rustici insediamenti[2] che si sovrapposero spesso, nella reminiscenza di un
passato eroico e in un desiderio di maggior sicurezza, alle rovine di
precedenti dimore costruite attorno a ciò che restava della struttura degli
antichi nuraghi.[3] La presenza di questi sparsi raggruppamenti umani era
strettamente inserita nel complesso sistema organizzativo posto in essere
dall'amministrazione centrale prima repubblicana e poi imperiale al fine di
garantire profitto sicuro ai possessori delle terre date in concessione,
rifornimento di cereali (soprattutto frumento) e di altri prodotti naturali alla
capitale dello stato e, ovviamente, riscossione di alti proventi per le casse
governative. Il conseguimento di tali obiettivi era assicurato dall'attività di
coordinamento esercitata dai funzionari insediati e operanti nei centri più
importanti e, in modo concreto, dal controllo e dal deciso intervento delle
coorti dislocate nelle zone più nevralgiche e redditizie del territorio
isolano.
Nel tardo periodo repubblicano e nei primi due secoli dell'impero
la forza militare inviata nell'isola da Roma risultava costituita da
contingenti di truppe cosiddette “ausiliarie”, composte da individui privi
della cittadinanza romana, provenienti da popoli ormai assoggettati ma
considerati, in un patto di fiducia, alleati. I reparti, per gli interventi iniziali
in terra sarda, pare fossero arruolati di volta in volta per la sola durata delle
singole campagne militari, mentre nella successiva fase imperiale venivano
reclutati e mantenuti in servizio permanente, ricevendo in compenso, al momento
del congedo, tra altri riconoscimenti, la cittadinanza, e quindi la possibilità
di legalizzare un'eventuale unione affettiva irregolare[4], un premio in denaro o un terreno da coltivare.
Alla luce soprattutto di quest'ultimo particolare e in generale di
quanto premesso, potrebbe essere ipotizzata, pertanto, dal punto di vista
demografico, la stabilizzazione nel territorio di veterani soprattutto Italici,
ma anche appartenenti ad altre regioni circummediterranee ed europee, che una
volta liberi dagli obblighi di ingaggio si sarebbero integrati nel resto degli abitanti
portando e diffondendo, generazione dopo generazione, nuove usanze, costumi,
concezioni e pratiche religiose. Con la parte militare rimasta nell'isola occorrerebbe,
inoltre, considerare tutti gli individui trasferiti in Sardegna durante
l'occupazione romana come mano d'opera agricola impegnata nella coltura dei
campi e nell'allevamento del bestiame e quindi gli addetti al commercio ed alle
attività artigianali e, infine, trafficanti e avventurieri di ogni specie alla
ricerca di fortuna e guadagni.[5]
È in tale quadro che, sulla base delle conoscenze
attuali, gli storici collocano, nel territorio abbasantese, la presenza di urne
connesse, in ambito funerario, al rituale della cremazione. Queste, in genere semplici
espressioni artistiche di gruppi sociali in prevalenza rurali, erano disposte
presso gli insediamenti costituiti da poche e povere dimore nel sito giudicato maggiormente
evocativo dagli abitanti del luogo o riunite, nei villaggi più importanti, in
una vera e propria necropoli, cioè in un'area considerata idonea, situata al di
fuori dell'abitato.[6] Allo scopo erano utilizzati banchi di roccia affioranti
o massi trasportati anche da altre zone. Nella parte superficiale dello strato
roccioso o nel blocco basaltico, all'esterno opportunamente sbozzato e lavorato,
venivano realizzate piccole cavità ben rifinite di forma rettangolare, quadrata,
ovale o circolare, profonde e larghe quanto necessario a contenere le ceneri e
con esse i frammenti combusti dei cadaveri. Nell'interno accanto ai resti spesso
si poneva una lucerna che doveva illuminare il passaggio al mondo dei morti e,
su un piccolo gradino, una moneta[7] per pagare a Caronte[8], secondo antiche credenze di Greci, Etruschi e
Romani, l'attraversamento dell'Acheronte, il fiume angoscioso del dolore o, per
alcuni autori, il superamento dei meandri paludosi dello Stige.[9]
L'incavatura era quindi ricoperta da un cippo, un masso
lavorato in modo da incastrarsi come un coperchio sull'elemento sottostante e
superiormente spesso rifinito con lo scalpello a rappresentare un segnacolo,
cioè l'aspetto più visibile o monumentale della semplice struttura complessiva.
I cinerari ritrovati nel territorio abbasantese, a differenza di altri
individuati in località circostanti, sembrerebbero, per quanto si conosce,
tutti anepigrafi, cioè privi di un'iscrizione visibile tracciata sul frontale,
e si presentano in tre tipologie[10] che paiono esprimere usi e costumi diversi
nell'ambito della vita comunitaria dei piccoli centri umani di pertinenza.
Le tombe, verosimilmente, erano tutte opera di
artigiani locali, cioè di modesti scalpellini che realizzavano i loro lavori
dietro richiesta dei membri delle comunità del circondario in cui erano
inseriti: una committenza certo indigena, ma anche multietnica, che recepiva gli
influssi esterni rielaborandoli e sovrapponendoli comunque alla tradizione
isolana. Ne risultavano produzioni particolari, frutto di un sincretismo,
un'osmosi tra elementi del substrato culturale prelatino e alcuni aspetti
propri del mondo romano, italico e, più in generale, mediterraneo, ma
fors'anche continentale europeo.[13]
La tipologia delle urne cinerarie del territorio abbasantese e di alcune zone
limitrofe, così come si può osservare esternamente, in ogni caso non
sembrerebbe essere, nel precedente periodo punico, documentata a Cartagine o
nei luoghi sardi dove fu più concentrata la permanenza di individui provenienti
da tale città; né d'altra parte parrebbe in seguito riscontrarsi, oltre appunto
alcune località del centro-Sardegna, nelle usanze di Roma e nelle tombe delle sue
aree cimiteriali suburbane o dei siti più densamente popolati e urbanizzati dell'isola.
Gli abitanti di entrambe le capitali, infatti, pur seguendo nelle loro
tradizioni anche il rituale funerario della cremazione, per la conservazione
delle ceneri espressero soluzioni diverse, a volte più complesse o
artisticamente elaborate.
Abbasanta,
13 maggio 2023
Vincenzo
Mattana
Per
contatti:
abbasantesu@gmail.com
Note
[1] La Sardegna divenne almeno nominalmente romana a
partire dal 238 a.C.. L'Isola apparteneva dai primi decenni del VI secolo a.C.
ai Cartaginesi che, seguendo il loro piano di espansione nell'area
mediterranea, erano intervenuti militarmente per sostenere gli interessi delle
città fenicie sorte e cresciute lungo la costa.
Molti aspetti della complessa fase storica prima punica e poi romana
perdurarono nell'evoluzione delle popolazioni sarde ben oltre la fine delle due
dominazioni: si conservarono e furono adattati localmente alla mentalità, ai
costumi, alle tradizioni e alle esigenze particolari delle diverse comunità.
[2] Forse questi villaggi, quasi tutti esistenti anche
nell'ultimo periodo della precedente dominazione punica, facevano parte di un
unico distretto rurale (pagus) ed i
loro abitanti, oggi denominabili genericamente “sardi”, erano in realtà
discendenti e quindi commistione e frutto delle diverse etnie che, dal
Neolitico in poi, dominazione punica e romana comprese, si erano stabilite in
Sardegna.
[3] Muta testimonianza questi ultimi di una grande
civiltà da tempo giunta all'epilogo del suo sviluppo e poi gradualmente
indebolita dall'arrivo di altre genti, agitata da nuovi e pressanti fermenti
culturali e sociali, logorata infine dalla crescente invadenza fenicia e, di
seguito, sopraffatta dalla potenza cartaginese.
[4] In genere, per ovvie esigenze connesse alla vita ed
alla disciplina militare, non era concessa ai componenti delle coorti
ausiliarie la facoltà durante il servizio attivo di contrarre un matrimonio
giuridicamente valido. Ciò non poteva impedire, tuttavia, che sorgessero
simpatie ed anche rapporti affettivi clandestini con alcune ragazze delle
località di stanziamento ed operative.
[5] Oltre a ciò, tra i molteplici apporti umani che
interessarono la Sardegna già nella precedente fase punica, occorre
considerare, con la significativa permanenza di deportati libici, la ripetuta
presenza di eserciti mercenari ingaggiati dai Cartaginesi durante le imprese
militari condotte nell'Isola. Si trattava di soldataglia, in diversi casi si
suppone accompagnata da mogli e figli, in genere scelta tra gli Iberi, i
Liguri, i Celti, i Greci, i Libici e i Numidi che, terminata la prestazione al
servizio della città nordafricana, a volte decideva di restare nei territori
sardi in cui si era consolidata la presenza punica, integrandosi quindi
gradualmente nel resto della popolazione.
[6] È ciò che può essere osservato nel sito di Losa, oltre la cinta muraria che
racchiude il villaggio e il grandioso bastione trilobato, con numerosi cinerari
scavati nello strato roccioso emergente e disposti, secondo l'antica
consuetudine, entro un'unica area al di fuori dell'abitato.
Altre urne sono state individuate, da un'accurata ricerca condotta
dall'Associazione Archeologica Etnografica Abbasantese, nei pressi di piccoli
insediamenti localizzati nelle località di Bena
Jórghi, Tzuras-Trossáela, Cannas, Perda crappída-Sa tanchítta, Mura 'e láuros, Mura ílighes
e Áiga.
Cfr. Associazione Archeologica Etnografica Abbasantese Carta Archeologica del territorio di Abbasanta, Scala 1:10.000,
Abbasanta 30 Novembre 1988.
[7] In una di queste tombe, presso la necropoli di Losa,
scrive il Taramelli, venne trovata una moneta in bronzo dell'imperatore
Adriano, al governo di Roma dal 117 al 138: circostanza questa che avvalorerebbe
la tesi che propone il I ed il II sec. d.C. quale periodo di inquadramento
temporale di molti reperti abbasantesi.
Cfr.- A.Taramelli, Notizie Scavi-1916,
pag 254, fig. 14, 15. Cfr. anche dello stesso autore, Allegato alla Carta Archeologica della Sardegna, R.Istituto
Geografico Militare, Firenze 1935-40, p. 122, ristampa Carlo Delfino Editore,
p.400 n. 80.a.
[8] Caronte, figura immaginaria delle credenze religiose
dell'antica Grecia, era descritto in genere come un vecchio dall'aspetto
ripugnante e dal cattivo carattere che, pur accogliendo sulla propria zattera
solo le ombre che avessero avuto un'adeguata sepoltura, pretendeva comunque un
obolo per il suo lavoro.
[9] Il mito di Caronte si diffuse anticamente in tutto il
mondo mediterraneo. Pure i popoli nordafricani di certo ne vennero a
conoscenza, ma verosimilmente fu assorbito solo in modo marginale dalle
credenze puniche sull'aldilà. Anche nelle tombe cartaginesi accosto ai defunti
venivano, infatti, lasciate delle monete, ma esse, spesso forate e trasformate
in monili, erano in genere considerate semplicemente degli amuleti, dei
talismani contro le forze negative che i morti avrebbero potuto incontrare nel
regno delle tenebre, oppure formavano veri e propri gruzzoletti a “corredo
personale” del defunto nella “seconda vita”.
Alcune urne, prive del piccolo ripiano per la deposizione della moneta,
potrebbero quindi appartenere ad un'area culturale non influenzata dal mito
caronteo e, verosimilmente, essere collegate ad espressioni e credenze proprie
di qualche specifica etnia del composito mondo, prima punico e poi romano,
stanziato nell'Isola.
In tutti i casi, per precisione espositiva e al di là di ogni ipotizzata o
certa collocazione temporale, non si dovrebbe parlare di “tombe puniche” o
“tombe romane”, ma eventualmente di tombe risalenti all'ultimo periodo della
dominazione punica, o alla fase tardo repubblicana romana, o ancora ai primi
due secoli dell'Impero romano.
[10] Schematicamente è possibile, riferendosi all'aspetto
esteriore dei cippi, riconoscere delle forme definibili “a capanna”, “a
bauletto” e altre lasciate, così come si presentavano in natura, non lavorate.
[11] Per quanto riguarda, comunque, la datazione di
diversi reperti abbasantesi, per correttezza metodologica, non è possibile, sulla
base degli elementi oggettivi a disposizione, escludere completamente la loro
appartenenza ad un periodo precedente riconducibile approssimativamente alla
fase finale della dominazione punica o, se si vuole, a quella tardo
repubblicana dello stato romano.
[12] Una segnalazione a parte meritano, come terza
tipologia poc'anzi accennata, diversi cinerari che mostrano realizzato l'incàvo
per la connessione all'elemento inferiore della tomba, lasciando però l'esterno
della parte superiore grezza, non lavorata. Potrebbe trattarsi di opera non
portata a termine, oppure verosimilmente di scelta precisa del committente
collegata magari, come anche nel caso del cippo “a bauletto”, all'idea del
tumulo che ricopre il defunto e quindi al desiderio di protezione e fors'anche
di rinascita che il “ventre” di Madre Terra, sin dall'alba dell'umanità
neolitica, sembrava assicurare ad ogni defunto.
[13] Nel corso dei secoli, svanito ormai ogni ricordo,
praticamente tutte le urne vennero scoperchiate, profanate e il loro contenuto
disperso da chi sperava magari di recuperare qualche oggetto prezioso.