sabato 27 maggio 2023

Sant'Amada








La devozione verso santa Amada, radicata nel vissuto delle antiche generazioni abbasantesi, è stata oggetto in più occasioni, a partire da un secolo e mezzo fa, di alcune congetture che, sollevando dubbi o incertezze sul nome della martire, hanno finito per ripercuotersi sulla valorizzazione della sua figura e creare un certo disorientamento nella comunità dei fedeli. 

Questo lavoro, inserendosi nella questione, vuole essere un momento di riflessione serena e costruttiva, volta solamente alla ricerca della verità storica su tale argomento, con la speranza che una maggiore consapevolezza sui fatti e sugli scarsi documenti a disposizione possa dare più consistenza alla venerazione della santa e maggior vigore ad una tra le più profonde radici del paese di Abbasanta.



La figura di Amada



Alla periferia est del centro abitato, di lato alla vecchia pista che dal fondovalle di Chenale porta[1] fin sul pianoro dove giace il paese, in tempi antichissimi venne eretta una chiesetta dedicata alla vergine e martire Amata[2]. Non si tratterebbe dell'edificio attualmente esistente[3], ma, si pensa, di una prima costruzione della quale purtroppo non si trova traccia nei racconti degli antenati e nella documentazione d'archivio al momento disponibile. Si ipotizza che il primitivo luogo di culto, sorto nello stesso sito di quello ora conosciuto, fosse costruito sul posto ove Amata venne uccisa; oppure sulla sua tomba, come divenne consueto nei decenni successivi alla fine delle persecuzioni contro i cristiani; o anche, come il rettore Salvatorangelo Dessì asseriva essere tradizione di Abbasanta, sui ruderi della casa in cui ella visse ed operò: in quest'ultimo caso la sua abitazione potrebbe essere stata uno dei luoghi nei quali i cristiani del territorio si riunivano per celebrare il sacrificio eucaristico e rinsaldare la loro fede.[4






La sua morte dovrebbe essere avvenuta, come per la maggior parte dei martiri sardi, al tempo dell'imperatore romano Diocleziano, tra il 304-305[5], quando furono emanate disposizioni con le quali si ordinava la distruzione degli edifici di culto, la consegna dei libri sacri e l'offerta di un sacrificio agli dei: il credo cristiano era stato infatti dichiarato giuridicamente religio illicita e i suoi aderenti perseguitati in ogni regione dello Stato. 
Amata nacque da una famiglia di origine, a giudicare dal nome, romana od italica e condusse, si suppone, una vita del tutto simile a quella della generalità degli abitanti del suo ceto sociale, in uno dei tanti piccoli insediamenti che animavano nell'epoca dioclezianea il territorio circostante. Per la sua storia umana, che si immagina, martirio a parte, senza episodi di qualche rilevanza, non ebbe la fortuna di essere conosciuta al di fuori del ristrettissimo ambito locale e soprattutto, cristiana perseguitata fra i tanti di quel periodo, non ci fu nessuno che descrivesse la sua breve vita, i momenti del suo supplizio, della sua morte ed il luogo della sua sepoltura. 

La mancanza di documentazione storica su Amata non preclude tuttavia il dato di fatto che lei sia veramente esistita: molti martiri dei primi secoli del cristianesimo, anche molto venerati, hanno condiviso, infatti, la stessa situazione.[6] Sono tanti coloro che non sono stati inclusi, proprio per assenza di notizie certe, nel Martyrologium Romanum o che, in questi ultimi tempi, vengono sostituiti nel culto, perché non più ricordati a livello popolare, da una miriade di nuovi santi che, persino oggi, in odio alla fede, vengono martirizzati in molte parti del mondo. 

Il riconoscimento dell'eroicità delle virtù di Amata potrebbe essere avvenuto, come era procedura ordinaria durante la prima fase di organizzazione strutturale del Cristianesimo, subito dopo la morte, da parte dei fedeli della sua comunità e di coloro che ebbero esperienza diretta della sua breve esistenza, conclusa con la tortura e infine con il martirio.

È assai importante e quasi doveroso, pertanto, considerare degne di fede tutte le persone che, contemporanee ad Amata, la conobbero direttamente, rimasero edificate dalle sue opere e soprattutto dalla sua morte, ebbero profonda convinzione della nobiltà del suo esempio e, quindi, dell'evidenza della sua santità. 


Certezza, questa, che, conoscendo la prudenza della Chiesa in tutte le questioni riguardanti la fede, sarà stata condivisa o in qualche modo confermata dalle autorità ecclesiastiche che andarono via via costituendosi nel territorio. Senza la partecipazione corale e convinta dei fedeli e senza l'approvazione ed il conforto delle guide spirituali presenti nelle antiche comunità ecclesiali, infatti, non sarebbe stata mai edificata una chiesa e mai avrebbe avuto alimento il culto di una santa conosciuta, poi, solamente a livello locale: ancora meno, per ipotesi, sarebbe stata consentita la venerazione di una martire immaginaria. 

Continuando con le considerazioni è opportuno aggiungere ancora, a sostegno della storicità della sua esistenza, le seguenti osservazioni; e cioè: 
- che da tempo immemorabile[7] i devoti hanno festeggiato (e onorano tuttora) Amata mantenendo sempre vivo il suo ricordo[8];
 - che, fino alla metà del XIX secolo, tutti i sacerdoti succedutisi nella comunità, secondo quanto è stato tramandato ad Abbasanta, hanno sempre celebrato il sacrificio eucaristico ed annunciato la Parola di Dio in espressa memoria della martire Amata; 
- che, infine, per ciò che è stato possibile conoscere, i vescovi prima di Forum Traiani, poi di Santa Giusta e, per ultimi, gli arcivescovi di Oristano hanno mantenuto costante la fondatezza del suo culto, senza sollevare difficoltà o stabilire sostituzioni storicamente documentate di Amata con altre sante o, ancora meno, col proporre la sua figura sotto diversa denominazione. 







Su nomen bostru est Amada


Oltre all'affermarsi ed al perdurare del culto lungo i secoli, l'unica fonte che possa, in qualche modo, dare testimonianza diretta dell'esistenza di Amata è costituita dal contenuto delle Laudes cantate in occasione della novena e della festa in suo onore.[9

Il componimento, lavoro di un ecclesiastico rimasto sconosciuto, raccoglie e riporta una tradizione orale mantenuta da tempo immemorabile nella quale, comunque, pur con tutte le necessarie cautele, un'attenta analisi permette di individuare e definire in modo chiaro i tre aspetti fondamentali caratterizzanti la figura della santa e cioè il nome, la verginità e il martirio. 

Sul nome di Amata[10] occorre decisamente precisare che le Laudes non si prestano a fraintendimenti di sorta, perché in ben due punti l'identità è affermata con chiarezza e in uno di questi proclamata senza possibilità di equivoci. 

Il primo è costituito dall'ultimo verso de s'isterrida, indicante spesso in queste opere religiose il nome del santo, dove si legge De Cristos ispos'Amada, così espresso dall'autore in libertà poetica forse per puro calcolo di metrica, ma che, per maggiore comprensione, dovrebbe essere inteso De Cristos isposa, Amada. L'altro passo, probabilmente ritenuto necessario a completare il precedente, coincide con il secondo verso della prima strofa dove si dichiara, 

Su nomen bostru est Amada. 

Precisazione, questa, che non può essere contraddetta in alcun modo e che conferma la plurisecolare voce di generazioni di fedeli che hanno pregato e cantato nella chiesetta le lodi della giovane martire. 

Il testo, proseguendo nella lettura, esprime ancora in maniera poetica
la verginità della santa

Su celestiale gesminu[11]
De sa bostra candidesa
Cunservestis cun puresa
Pro s'altu Isposu Divinu
... ... ...

il suo martirio

Crudeles arman turmentos
Famosos battin buzinos[12]

... ... ...

la sua morte

Finalmente rubrichestis
Cun sa purpura su lizu[13]
... ... ...

   





Amata e non Dorotea


La prima e probabilmente unica volta che il nome di Amata venne trasformato, senza alcuna documentazione o prova ad oggi conosciuta, in quello di Dorotea, risale alla metà dell'Ottocento, essendo rettore ad Abbasanta il sacerdote Cristoforo Bua di Ovodda (in carica dal gennaio 1813 all'ottobre 1864)[14]. Egli, o forse gli altri sacerdoti operanti in paese, come tutti i parroci ed i maggiori rappresentanti delle istituzioni e della cultura sarda di quel periodo, ricevette un questionario e verosimilmente anche la visita di Vittorio Angius[15] che in quegli anni stava lavorando alla stesura, per la parte relativa alla Sardegna, del colossale Dizionario del Casalis. 

L'opera, pubblicata tra il 1833 ed il 1856, alla voce «ABBA-SANTA», riporta tra le altre la seguente informazione: 

«La chiesa parrocchiale è denominata da santa Catterina vergine e martire. Governasi da un parroco, che ha il titolo di rettore, il quale viene assistito nella cura delle anime da altri due sacerdoti. Vi è inoltre l'oratorio di san Martino, dove uffizia la confraternita del Rosario, e le chiese di sant'Antonio, di santa Maria, e di santa Dorotea.»


Oggi non si possiede alcun elemento per descrivere con certezza come si svolsero realmente i fatti e, soprattutto, non si sa se l'Angius riuscì ad incontrare il Bua durante il forzato allontanamento di quest'ultimo dalla parrocchia, o venne accolto dagli altri sacerdoti presenti nella comunità. Tuttavia, nei documenti redatti dal rettore Bua risulta che lo stesso, citando la titolare della chiesetta, la indicò sempre come santa Amata negli anni 1821, 1824 e 1828; passò a  denominarla invece «santa Dorotea, detta santa Amada» nell'anno 1850 e nei successivi del suo rettorato, in coincidenza con la pubblicazione della famosa opera del Casalis.[16] Dopo il suo decesso, la plurisecolare denominazione «santa Amata» venne, da quel che sembra, riadottata da quasi tutti i parroci succeduti al Bua nella sede di Abbasanta, a cominciare dal Ponti, e, né in precedenza, né in seguito, mai abbandonata da tutti gli arcivescovi oristanesi.[17

Questi ultimi, come massimi responsabili dell'ortodossia della fede cristiana e del culto da rivolgere ai santi del loro territorio, nel dubbio avrebbero avuto con tutta evidenza il giusto titolo e l'autorevolezza necessaria per intervenire e porre chiarezza e ordine su un problema così delicato.[18

Si ha invece l'impressione che proprio l'Angius sia andato oltre i limiti di una descrizione fedele della realtà abbasantese, opponendo, si suppone, alle scarne e limitate argomentazioni del clero locale sulla figura di Amata, tutto il peso della sua vasta e profonda cultura, sostenuta dal prestigio degli incarichi che nel corso della vita ricoprì in campo formativo, religioso e persino politico.[19

Potrebbe: 
- aver fatto notare la coincidenza della data (6 febbraio) nella quale sono festeggiate le due sante;[20
- aver evidenziato il fatto che Amata, a differenza di Dorotea, non era inclusa nel Martyrologium della Chiesa Romana;[21

Fu probabilmente influenzato dalla circostanza che san Giuseppe Calasanzio, fondatore dell'Ordine degli Scolopi, di cui l'Angius durante la sua esistenza fece parte, diede inizio alle attività in favore dell'educazione dei ragazzi in un locale, guarda la combinazione, della chiesa romana di Santa Dorotea, in Trastevere. 

Parrebbe: 
- non aver tenuto conto dell'antichissima tradizione abbasantese che, contrariamente ad Amata, non conosce sotto l'aspetto linguistico alcuna espressione riferibile a Dorotea; 
- non aver considerato il fatto che sono numerosi, tra i santi festeggiati in Sardegna, i martiri che non sono inclusi nel Martyrologium
- non aver valutato degno di attenzione il contenuto delle Lodi della santa, dove non si fa menzione del preside Sapricio, persecutore di Dorotea, delle due sorelle Criste e Callista, che avrebbero dovuto convincerla ad abbandonare la fede; e non si parla del miracolo delle mele e delle rose attribuito sempre a Dorotea e del martirio di Teofilo, ucciso assieme a lei e con lei venerato sugli altari. 

Quasi sicuramente non ebbe nemmeno modo di leggere il testo completo del componimento religioso e, quindi, di confrontarsi con quel verso dove il nome di Amata è riportato ed affermato senza alcuna possibilità di dubbio o incertezza: 

«Su nomen bostru est Amada». 

Purtroppo, la sospetta forzatura posta in essere da Vittorio Angius sull'identità della santa ha sotto questo aspetto condizionato alcune descrizioni di storia locale e persino scelte effettuate diversi decenni fa dalla comunità dei fedeli quando, sotto l'influenza di una sorta di ipse dixit, si diede in buona fede e forse imprudentemente credito alle affermazioni dell'illustre personaggio[22], supponendo tra l'altro che il nome Dorotea potesse collegarsi all'espressione “amada de Deus” che si dice contenuta nelle Laudes: il fatto è che Dorotea non significa ‘amata da Dio’, ma ‘dono di Dio’, e la frase sopra riportata, in tale precisa accezione, non è neanche presente nel testo richiamato, come si può rilevare da una sua attenta lettura.[23] Non è possibile, d'altra parte, ritenere valida l'ipotesi di altri che farebbero derivare “Amada” da presunte Laudes di santa Dorotea perché, come appurato precedentemente [v. nota n. 20], non esiste in Sardegna chiesa dedicata a quest'ultima martire e, quindi, i gosos in suo onore sono essi pure, come conseguenza logica, da considerare del tutto inesistenti e la loro citazione priva di fondamento.






Riassumendo, la ricostruzione della verità storica per il momento porta: 
• a ritenere del tutto arbitraria l'identificazione di Amata con Dorotea compiuta dall'Angius e seguita da coloro che, dopo di lui e a tutti i livelli, si sono appoggiati alla sua, ovviamente per altri versi, meritoria opera di descrizione della realtà isolana; 
• a considerare la “pericolosità” di tale accostamento che, nel tempo, finirebbe per cancellare in modo definitivo il ricordo di Amata e con esso una parte significativa del vissuto delle antiche generazioni abbasantesi; 
• a rivalutare, quindi, la figura di Amata, probabilmente giovane martire del territorio, come uno dei più antichi e importanti fattori di aggregazione sociale che, nel volgere dei secoli, diedero vita e corpo alla comunità abbasantese. 







Il Cristianesimo prima e dopo il martirio di Amata



Diversi furono i percorsi attraverso i quali il Cristianesimo penetrò nella zona dell'attuale Abbasanta. Vennero utilizzate sicuramente le primordiali piste di collegamento che dal Campidano di Oristano risalivano il corso del Tirso fino alla fertile piana della Campeda del grande fiume e si insinuavano tra le diverse ramificazioni dei Canales, immettendosi quindi sull'altopiano esteso dalle pendici del Montiferru a quelle del Marghine. Una delle più frequentate, probabilmente, doveva essere quella che raggiungeva nell'attuale Chenale la preziosa sorgente di Funtan'e josso e superato il ciglione basaltico, si apriva a ventaglio sul pianoro, ramificandosi verso quei siti che in precedenza erano stati i punti nevralgici della vita e dell'economia nuragica, fenicio-punica e, nel periodo in esame, costituivano, ormai da oltre cinque secoli, centri produttivi o di controllo della dominazione romana nel territorio. 




Ma, senza dubbio, la più importante via di diffusione della nuova fede fu la lunga e, per i tempi, comoda strada romana che collegava Turris Libisonis (Porto Torres) con Karales (Cagliari): questi due grossi centri abitati, assieme ad Olbia tra i più importanti dell'isola, oltre ad essere organizzati dal punto di vista urbanistico, militare ed economico secondo le esigenze dei dominatori, disponevano di ampie strutture portuali capaci di garantire sicuri ed agevoli collegamenti e commerci con la terraferma continentale e soprattutto con Roma.[24

Sulla vastità dell'altopiano abbasantese dovevano essersi formati, nel periodo imperiale, alcuni latifondi all'interno dei quali erano sorti piccoli e rozzi nuclei abitativi, sparsi per la campagna e costruiti di preferenza sull'area di più antichi insediamenti nuragici: erano poco più che poveri ripari per gli schiavi e i coloni che, col loro lavoro spesso bestiale, contribuivano alla ricchezza dei potenti titolari di quelle grandi estensioni arative e pascolative. Nel territorio erano verosimilmente presenti anche medi e piccoli proprietari fondiari, una volta liberi coltivatori, ma, agli inizi del IV secolo, in forza delle nuove leggi emanate da Diocleziano, legati alla terra, quasi come servi della gleba, loro ed i propri discendenti.[25] Anche gli operai e gli artigiani, per evitare che abbandonassero il lavoro, erano stati inquadrati da rigide norme in corporazioni che vennero rese ereditarie, come già avveniva per i militari in servizio. Tutti questi lavoratori avevano stabilito dimora in minuscoli villaggi (vici), dove col tempo erano sorti anche laboratori artigianali di tipo rurale e punti di riferimento per le più comuni attività commerciali e dove si avevano, inoltre, maggiori possibilità di difesa da sempre possibili e temute azioni di brigantaggio. 

La zona di Abbasanta si immagina, in quel periodo, occupata da una popolazione di diversa provenienza e dalla composizione etnica, pertanto, assai eterogenea: dovevano essere, infatti, presenti abitanti di origine romana e italica, con le famiglie e la servitù, e accanto numerosi abitanti di antica radice sardo-punica, in genere dediti ai lavori più faticosi o umili e tenuti in una condizione di forte assoggettamento, a cui i nuovi dominatori, con la loro cultura, usi e costumi, erano andati ad aggiungersi. 

In questo coacervo di varia umanità arrivò il messaggio evangelico portato da coloro che, avendo abbandonato gli idoli pagani ed abbracciato con entusiasmo la fede cristiana, divennero, ovunque andassero, veri e propri missionari e, quindi, propagatori della nuova rivoluzionaria ideologia. Si trattava soprattutto di militari in trasferimento da un luogo all'altro con i loro reparti o di persone dedite all'accaparramento ed al piccolo commercio di prodotti naturali o artigianali che, spostandosi dagli ambienti sotto l'aspetto culturale più evoluti, continuamente informati e popolosi delle città portuali, venivano a contatto con gli abitanti dell'interno, di certo più arretrati ed isolati. Non furono, infatti, al contrario di ciò che avvenne a Roma o nelle grandi città della penisola, individui provenienti senza distinzione da tutte le classi sociali i più aperti recettori della Buona Novella, ma, soprattutto, elementi che discendevano da famiglie romane o italiche stanziate nelle diverse zone della Sardegna o appartenenti ai ranghi dell'esercito imperiale. 





Il Cristianesimo, dunque, giunse in questo modo anche nella Sardegna centrale e, lungo il tratto stradale compreso tra le postazioni di Ad Medias e la statio di Forum Traiani, si diffuse presso tutte le modeste aggregazioni umane incontrate, crescendo soprattutto nell'importante centro termale, commerciale e militare situato accanto alla sponda sinistra del fiume Tirso. Si pensa che a Fordongianus sia sorta, già in età dioclezianea, una piccola ma fervente comunità cristiana, punto di riferimento e di sostegno per i minuscoli nuclei di convertiti del territorio circostante e verosimilmente guida riconosciuta per la presenza di figure dotate di autorità e carisma nella fede e nell'ortodossia. Non secondaria influenza avrà avuto anche la rinomanza via via assunta dalla venerazione verso il santo martire Lussorio che, secondo una versione della sua vita, venne ivi decapitato. Alla fine del V secolo, poi, è già documentata l'esistenza della cattedra vescovile di Forum Traiani, una vera diocesi, unica nell'entroterra, talmente importante da inviare il proprio vescovo Martinianus al Concilio di Cartagine indetto nel 484.[26




Militari di passaggio o addetti alla manutenzione periodica della sede viaria, commercianti, pellegrini diretti verso la tomba di Lussorio e poi verso la sede vescovile, quindi, utilizzarono la strada romana o, comunque, operarono nella regione gravitante attorno a tale importantissimo collegamento. 
È possibile, forse, documentare tutto questo movimento attraverso un'esile traccia lasciata sulle pareti della struttura muraria sottostante un ponte, situato, lungo la grande via verso Forum Traiani, in una località prossima alla regione ghilarzese di Trempu






Si tratta di un graffito[27] inciso sul paramento di sinistra e riproducente uno dei più arcaici simboli cristiani conosciuti e cioè quello che dagli studiosi viene denominato “staurogramma”. Esso rappresentava l'evocazione della parola ‘croce’ perché derivato dal termine stauros che nel greco antico significava ‘palo infisso nel terreno’ e nei primi secoli cristiani anche la trave assicurata sulle spalle dei condannati prima di essere innalzata e fissata al sostegno verticale.[28


È pregnante e suggestivo, inoltre, pensare che almeno parte dei pellegrini, dei semplici viandanti e dei viaggiatori in cammino lungo la Ad Medias - Forum Traiani si sia spostata anche verso i luoghi delle sepolture dei martiri Amata e Palmerio, situati, l'uno di fronte all'altro, sui margini opposti della valle di Chenale e punti estremi della pista che rasenta la sorgente di Funtan'e josso. Il supplizio e la morte dei due santi, entrambi vissuti nelle fasi iniziali del cristianesimo, e la successiva edificazione delle loro chiese,[29] testimoniano la grande importanza dell'antichissimo collegamento viario e, nello stesso tempo, suppongono l'esistenza nel territorio di un nucleo governativo romano cui era demandata la facoltà di intervenire sull'osservanza delle disposizioni dioclezianee in merito alla fede cristiana.  










Nel periodo successivo al martirio di Amata e Palmerio, quando Teodosio dichiarò il Cristianesimo culto ufficiale dello Stato e mise al bando nel 392 l'antica religione romana, si verificò ovunque un rovesciamento delle posizioni tra i seguaci del Vangelo ed i sostenitori del vecchio ordinamento. Le vittime divennero a loro volta persecutori, spesso spietati come i loro predecessori; ci furono degli eccessi e persino delle ritorsioni alimentate da forti rancori tra famiglie contrapposte. Numerosi pagani vennero denunciati alle autorità di governo, molte statue raffiguranti divinità furono danneggiate e diversi luoghi di culto politeistico incendiati e ridotti in rovina. 

Per quanto riguarda l'altopiano di Abbasanta ne è esempio un rustico santuario, un sacello, installato in un ambiente del nuraghe Lugherras di Paulilatino e dedicato ad una entità legata alla fertilità dei campi, inizialmente appartenente alle credenze protosarde e poi, secondo un'ampia sequenza temporale, prima alle divinità puniche Demetra e Tanit e di seguito, pare, alla dea romana Cerere.[30





Anche le ancestrali religioni sarde dell'interno, ancora legate, secondo concezioni naturalistiche ed animistiche, alla venerazione della Dea Madre e del Dio Toro ed al culto dell'elemento divino ritenuto presente soprattutto nelle espressioni monumentali dei menhir e, si pensa, nelle antiche querce cave del territorio, subirono l'attacco dei seguaci della nuova fede. 

Le imponenti e lunghe pietre infisse verticalmente nel terreno[31], chiara simbologia del principio fecondatore maschile o di fertilità femminile, erette a difesa dei luoghi più antropizzati, come l'incrocio di frequentate piste di comunicazione o l'ingresso dei villaggi, vennero abbattute, frantumate ed i pezzi dispersi in ogni direzione. 

Una grande quercia cava, scelta ogni anno tra le più possenti delle campagne circostanti, richiamante nell'aspetto il grembo accogliente e protettivo della Madre Terra nella sua espressione più sacrale, dopo essere stata profanata con lo sradicamento, l'amputazione dei rami e di parte delle radici, si ritiene venne trasportata, in quei primi tempi assai tormentati, quale trofeo di vittoria sul paganesimo, fino al piazzale della chiesa dedicata alla memoria ancora viva e sentita della martire cristiana venerata nel territorio ed ivi, dopo averla eretta, raddrizzandola in un simulacro dell'originaria maestosità e potenza, data alle fiamme sotto lo sguardo approvante dei fedeli convenuti.















Con la sua presenza sa tuva, accesa alla vigilia del dies natalis di sant'Amada[32], tradizione ancora oggi mantenuta forse dalle origini della sua venerazione, sembra offrire un'ulteriore conferma nel giudicare appartenente ai primi secoli del Cristianesimo la sua vicenda umana e nel richiamare la contemporanea esistenza di un nucleo di fedeli che la conobbero, la stimarono e costruirono, verosimilmente nel luogo del suo martirio, un primo edificio di culto. 



Conclusione


In questa intricata vicenda le limitate osservazioni sin qui espresse non pretendono di essere definitive: vogliono soltanto costituire un primo passo verso la verità storica sui fatti e sulle persone. Altri documenti, si spera, potranno recare nuovi elementi di conoscenza, ma intanto la Chiesa, maestra e guida, e l'autorità civile, ognuna per il proprio settore e competenza, sapranno certo valutare e discernere gli aspetti più utili al progresso della comunità abbasantese. 



*****





Abbasanta, 6 febbraio 2017 
                                                                              Vincenzo Mattana


[Revisione del 15 maggio 2023]



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Note al testo:


[1] Il collegamento, molto utilizzato sin dalla preistoria, rasenta la sorgente di Funtan'e josso

[2] Il nome, chiaramente latino, è divenuto, nella parlata comune del sardo abbasantese, Amada.

[3] L'odierna costruzione, infatti, opera di maestranze verosimilmente della zona, può essere collocata in una fascia cronologica compresa tra il Seicento ed il Settecento. Cfr.- Lucio Pinna e Nina Dessì, “Chiese filiali”, in Abbasanta, a cura di Nino Onida, ISKRA Edizioni, Ghilarza 2010, p.237. 

[4] Il rettore Salvatorangelo Dessì Ponti, che guidò la parrocchia dal 1922 al 1939, in un suo manoscritto inedito affermava che la chiesa di santa Amada era «... consacrata, come è risultato dal tubetto con pergamena rinvenuto nella demolizione dell'altare. L'ignoranza di allora non ha tenuto conto di quel prezioso ricordo e tutto andò perduto». Non è possibile sapere da dove avesse tratto quest'informazione, ma verosimilmente si riferiva a fatti avvenuti qualche secolo prima e tramandati da fonti orali.

[5] I martiri della Sardegna dovettero subire la pena capitale verso il 304-305. Sotto il preside Delphius, Luxurius nei pressi di Forum Traiani; sotto il preside Barbarus, Saturnus di Karales, Gavinus, Protus e Ianuarius di Turris e Simplicius di Fausania. Incerta è la data del martirio di Ephesius (noto nella forma bizantina Ephisius) a Nora e di Anthiocus a Sulci.
Cfr: INSVLAE CHRISTI - Il Cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, Guida alla mostra, Oristano Monastero del Carmine - Antiqvarum Arborense, MYTHOS iniziative, Tipografia Ghilarzese, 2000, p.19. 

[6] Di molti santi non ci resta neppure il nome perché il loro culto non figura tra quelli ufficialmente ammessi dalla Chiesa o non è stato confermato dalla pietà e dalla tradizione popolare.

[7] Non si conosce, purtroppo, alcuna documentazione scritta sull'esistenza del culto dalle origini fino a tutto il Medioevo, così come scarse o nulle sono le notizie intorno alla vita dei piccoli centri abitati di quel lontano periodo. In ogni caso, l'esistenza concreta di un luogo a lei dedicato testimonia una pur minima continuità nella venerazione della santa, pervenuta, anche se con alterne vicende, dal martirio fino ad oggi.

[8] Nei tempi moderni certamente con una partecipazione inferiore al passato, quando tutta la comunità era coinvolta nei preparativi e nelle diverse fasi della ricorrenza ed era segnalata anche l'affluenza di persone dai paesi circostanti.

[9] Esaminando il testo si vede come esso sia composto da una strofa iniziale (istèrrida) di quattro versi, gli ultimi due dei quali costituiscono il ritornello, e da successive altre dieci strofe di sei versi ciascuna descriventi i tratti essenziali delle qualità morali e del martirio della santa. 

[10] In Sardegna i cristiani dei primi secoli, nonostante fossero affettivamente legati alle tradizioni ed ai costumi delle rispettive famiglie, sentirono viva l'esigenza di manifestare, in particolare col nome scelto sul fonte battesimale, la gioia della loro esperienza di fede. Nacquero, quindi, appellativi contenenti un riferimento a Dio (Abeddea, Deodatus, Quobuldeus), o rispecchianti la personale storia di conversione (Redemptus, Renobata, Restituta, Reparatus), o invocanti l'assistenza dei primi martiri (Agnes, Laurentius, Perpetua, Digna, Matrona). È documentata nell'isola persino l'esistenza di un Amabilis Dei serbus.; il che porta a ritenere del tutto probabile e coerente con il fervore culturale e religioso del periodo iniziale del Cristianesimo anche l'esistenza, al principio del IV secolo, del nome “Amata”. 
Cfr. i seguenti testi: 
- Letizia Pani Ermini, “Dalle origini alla fine dell'età bizantina”, in Storia dei Sardi e della Sardegna, Vol. I, Editoriale Jaca Book, Milano 1988, pp. 306 -307. 
- Raimondo Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Città Nuova, Roma 1999, pp. 79-80.
D'altra parte, il nome Amata non fu certamente sconosciuto alle famiglie romane precristiane, considerando che lo troviamo anche nei libri settimo e dodicesimo dell'Eneide (poema epico di Virgilio, vissuto dal 70 al 19 a.C.), e che, nella religione dell'antica Roma, fu l'appellativo rituale attribuito ad ogni vestale al momento della sua scelta da parte del pontefice massimo. 

[11] Si tratta del gelsomino, rampicante dal fiore bianco e profumato.

[12] Boia, carnefici.

[13] Cioè: ‘Col vostro sangue tingeste di rosso porpora il candore della vostra verginità’.

[14] Durante il suo rettorato, probabilmente per istigazione di qualche personaggio locale, venne allontanato dalla sede di Abbasanta per esservi riammesso forse nel 1842. La circostanza si deduce da una lettera che il 22 gennaio di quell'anno il Bua indirizzò da Ovodda agli amministratori del Comune, dove, tra l'altro, chiedeva che «...si compiaciano indicarmi se sia loro desiderio e di codesto comune che rappresentano e si creda conveniente che io sia reintegrato in codesta stessa mia Parrocchia...». Assicurava «...di non avere astio alcuno contro quelli che servirono di mezzo pel conseguimento del mio esilio, perché perdono di cuore a tutti come mio obbligo di Cristiano...». Il Consiglio Comunitativo di Abbasanta, assenti il Sindaco e un consigliere, rispose il 4 febbraio, prendendo atto delle parole del Bua, pronunciandosi con un parere favorevole affinché lo stesso fosse «...reintegrato in questa sua Parrocchia dove molti lo desiderano e ne domandano la restituzione al Vicario Generale...» e lasciando comunque a quest'ultimo la responsabilità della decisione finale. 
(Archivio Comunale di Abbasanta)

[15] Vittorio Angius (1797-1862), sacerdote dell'Ordine degli Scolopi, chiamato a collaborare con Goffredo Casalis alla stesura del famoso Dizionario, dal 1832 al 1840 si recò di persona in ogni singolo paese della Sardegna, raccogliendo di ogni villaggio le tradizioni orali, la storia, le leggende, le credenze, le feste e tutti i dati e le informazioni ritenute significative. 
Lasciato nel 1842 il suo Ordine, divenne, nel 1848 e nel 1850-1853, Deputato del Regno di Sardegna.      

[16] Esaminando il Libro dell'amministrazione della chiesa di sant'Amada, è possibile notare come il nome di «santa Dorotea, detta sant'Amada», appaia per la prima volta in un decreto del giugno 1850, e successivamente in un altro del 1852 e ancora in altri del 1854, del 1856 e 1860, sempre firmati dal rettore Cristoforo Bua. In tutti i decreti anteriori al 1850 non appare mai il nome di santa Dorotea, così come in quelli dal 1864 in poi firmati dal successore del Bua, rettore Paolo Ponti, dove la chiesetta viene sempre denominata di sant'Amada o Amata. 
(Sintesi da: Dora Carta Sanna, “Santa Amada o Santa Dorotea”, in Abbasanta, cit., p.251.)
Ancora oggi, tra i luoghi di culto di Abbasanta, l'Arcidiocesi di Oristano riporta in un elenco ufficiale la presenza di una chiesa dedicata a sant'Amada, collocandone peraltro la costruzione nel XVI secolo. [Cfr. sito “Arcidiocesi di Oristano” → Parrocchie → Abbasanta → Chiese presenti nel centro abitato → «2. Sant'Amada (XVI sec.)»].


[17]  È difficile definire quella che sembrerebbe una presa di posizione del rettore Bua nei confronti dell'antichissima venerazione attribuita dalla popolazione abbasantese a santa Amata. Di sicuro doveva essere convinto di agire a fin di bene e, d'altro verso, per lui depone l'affetto di gran parte dei parrocchiani che ne chiedevano il ritorno, come si rileva dalla risposta alla lettera del 1842 da parte degli amministratori comunali. Inoltre, la sua azione pastorale in seno al paese fu caratterizzata da due avvenimenti assai importanti in favore della comunità. 
Il 15 gennaio 1829, infatti, egli cedette alla chiesa parrocchiale di Santa Caterina l'intero edificio della sua abitazione, da lui acquistato nel 1817. La struttura, che dovrebbe coincidere con l'attuale casa parrocchiale, venne così descritta nell'Atto del 1829: « tutto quel corpo di case tanto alte, che terrene, composto di sette stanze si le alte, che le terrene, d'una stanza paglia, e d'altra del forno col cortile, che è da per mezzo della casa palazzo, e della casa del forno, col pozzo dentro di detto cortile, e di due cortili contigui alla detta casa del forno ». Il testo dell'atto continuava poi specificando che dette «case» avevano due ingressi: la porta principale a ponente e l'altro ingresso a tramontana, dove si trovava il portone che immetteva nel cortile. Veniva, poi, indicata la presenza di un loggiato facente parte dell'edificio e di cui oggi non vi è più traccia: « tutte quelle quattro botteghe annesse al suddetto corpo di case, che sono dirimpetto al piazzale di detta Chiesa Parrocchiale ». 
Cfr.: Pro Loco Abbasanta, Chiesa Parrocchiale S.Caterina d'Alessandria, Tipografia Ghilarzese, 1993, pp. 29-31. 
Dal Libro Storico della Parrocchia si viene a conoscenza, inoltre, che nel 1861, durante il suo rettorato, venne costruito il campanile di lato all'antica chiesa di santa Caterina che ne era priva.
La struttura fu negli anni settanta del secolo scorso demolita e sostituita da quella attuale. Del campanile Bua rimane ora solo il ricordo, documentato da una cartolina delle Ediz. L. Castellini di Abbasanta e da diverse fotografie appartenenti ad archivi privati del paese. 
In difesa del rettore Bua si potrebbe inoltre considerare come elemento importante il fatto che, probabilmente durante il suo «esilio», operò in parrocchia anche il sacerdote Paolo Mele. Questi, trasferito nel 1854 da Abbasanta ad altra sede, perché non gradito al Bua che gli negò la cosiddetta «presentata di Vice-Parroco» (Cfr. Delibera 27 aprile 1854 del Consiglio Comunale di Abbasanta), si sospetta abbia svolto un ruolo significativo nella tentata sostituzione del nome di Amata con quello di Dorotea. Pare, infatti, che si tratti dello stesso sacerdote Paolo Mele (1816-1871), cappellano a Norghiddo e divenuto addirittura sindaco di quel paese dal 1859 al 1869. 
Nelle vesti di amministratore comunale il Mele, nonostante il parere contrario del grande linguista e storico Giovanni Spano, consultato per l'occasione, e l'opposizione di gran parte della popolazione, fece approvare dal suo Consiglio una deliberazione con la quale si chiese (sembra fosse una mania del tempo) il cambiamento della denominazione del piccolo centro da Norghiddo a quella più “moderna” di Norbello, scelta da una terna comprendente anche i nomi di Fiorentino e Frontavalle. La modifica venne autorizzata da un Regio Decreto entrato in vigore nel 1863 tra il malcontento popolare, le critiche dello Spano e l'ironia di un ignoto poeta dialettale: 

Mai morit de NORGHIDDO sa memoria 
Semper NORGHIDDO nant sos de su logu 
Su nomen de NORBELLO est tottu jogu 
Pro qui a jogu istesit cambiadu 
Et finas cuddos qui l'hant inventadu 
Narant NORGHIDDO et sentint pro su fattu, 
Cunfessendelu, grande disbarattu 
Qui mai si podiat operare. 

[Disbarattu, cioè «sciocchezza, sproposito, disordine»]

(Cfr. i seguenti testi: 
- Bianca Miselli, 1986, “Un paese, due nomi: da Norghiddo a Norbello”, in Norbello, un paese, una comunità, una storia, Quaderni dell'identità, n. 1, Fondazione Bianca Miselli, Norbello (Bozza di stampa). 
- Mario Manca, Da Norghiddo a Norbello, Anno 2006, pp. 25, 26 (Edito dall'autore) 

Nella vicenda “Amata-Dorotea”, alquanto intricata e piena d'ombre, potrebbe aggiungersi pertanto anche un mal indirizzato attivismo del Mele, ove venisse confermata dagli atti d'archivio la sua presenza nella parrocchia di Abbasanta durante la visita dell'Angius e, magari, la contemporanea e sofferta assenza del Bua a causa del suo “esilio”.

[18] Certamente il vescovo che a suo tempo autorizzò la costruzione della prima chiesetta non diede la sue disposizioni in modo imprudente, ma ben consapevole della verità sui fatti e le persone, mentre i suoi successori, con i sacerdoti via via destinati alla comunità dei fedeli, non fecero altro che confermare quanto avvenuto e conosciuto in precedenza. Il popolo, quindi, per la parte di sua competenza, continuò a tramandare le decisioni e le proposte delle sue guide spirituali, anno dopo anno, lungo il corso dei secoli, mantenendo sempre vivo il nome e la venerazione della santa.
Nessuno, di sicuro, nella piccola chiesa locale aveva necessità di essere a casa propria istruito, in modo poi così scarno e senza prove documentali, sulla figura della martire invocata nell'edificio di culto.
È bene tenere in considerazione, ancora, che per l'Angius Abbasanta, verosimilmente, era uno dei tanti quasi sconosciuti villaggi della Sardegna, di cui, oltre il nome ed alcuni dati molto generali, personalmente ignorava in pratica quasi tutto. La maggior parte delle notizie particolari riportate nella sua opera sono infatti frutto delle informazioni ottenute tramite un apposito questionario o fornite direttamente, in ogni singolo luogo visitato, dalle persone interpellate; elementi, poi, da lui ovviamente interpretati secondo le sue personalissime idee ed i propri punti di vista.
Appare interessante notare, a questo punto, quanto documentato, dalla pagina 15 alla pagina 18, nel libro Le chiese filiali di Abbasanta (Associazione Pro-loco, Tipografia Ghilarzese, 1995): nella parte indicata vengono proposti alcuni passi dei decreti relativi alle visite pastorali di tre arcivescovi oristanesi presso la comunità abbasantese. In tutti la chiesetta è indicata sempre con la dedica a santa Amata o Amada. Le citazioni, per la precisione, si riferiscono cronologicamente al 1789 (arcivescovo Giuseppe Luigi Cusany: «Visitada la Igl.a de S. Amada ...»), al 1806 (arcivescovo Francesco Maria Sisternes de Oblites: «Visitada la otra Igl.a filial de S.ta Amada ...»), al 1844 (arcivescovo Giovanni Saba: «Visitato il presente libro di amministrazione della Chiesa figliale di S. Amata ...»). Quest'ultimo addirittura appena qualche anno prima dell'inopportuna “illuminazione” dell'Angius.
Infine, per quanto riguarda i parroci, è significativo menzionare il seguente passo tratto dalla pagina 8 del testo della Pro-loco appena ricordato.
« ... nel Libro Storico, alla data 6 febbraio 1983, il parroco don Damiano Carta annota “Preceduta dalla novena, si è celebrata la festa di S. Amada nella chiesa filiale dedicata a questa Santa.”» 

[19] «Ingegno molto versatile ... aveva però un carattere scontroso e altezzoso che lo indusse più volte a polemiche astiose, che finirono per isolarlo.»
Da: Luciano Carta “Il contributo di Vittorio Angius al Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna di Goffredo Casalis”, in Vittorio Angius. Città e villaggi della Sardegna dell'Ottocento. Abbasanta - Guspini, ILISSO Edizioni Nuoro 2006, p. 10. 
Anche le parole riservate dall'Angius all'arretratezza della popolazione abbasantese, riferendosi a sa timoria che verrebbe curata con la saliva ed ai lamenti funebri de sas attitadoras, paiono esprimere, contrariamente alle descrizioni relative ad altri paesi del Guilcier, quasi una sorta di malanimo nei confronti degli abitanti e, soprattutto, sono una frecciata abbastanza palese e pungente contro il clero locale: «... si praticano molte superstizioni che non si ebbe cura di estirpare».
Cfr.: G. Casalis, Dizionario geografico - storico - statistico - commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Ed. Maspero - Marzorati, Torino 1833-1856: vedi la voce «ABBA-SANTA», curata, come tutte le altre relative alla Sardegna, da Vittorio Angius. 

[20] Non esiste altra chiesa in Sardegna dedicata a sant'Amada e neppure a santa Dorotea.
Cfr.: Dora Carta Sanna, in Abbasanta, cit., pag. 254.

[21] Nemmeno Palmerio, santo festeggiatissimo a Ghilarza, tanto per fare un esempio, è mai stato incluso nel Martyrologium della Chiesa Romana e, come lui, tanti altri santi venerati in Sardegna.

[22Precedentemente all'Angius nessun altro autore aveva mai identificato Amata con Dorotea e successivamente tale conclusione è stata accolta solo da coloro che si sono appoggiati alla sua opera. Tutto, però, senza l'ombra di una prova o di un qualsiasi documento.



[23] Cfr. i seguenti testi: 
- Associazione Pro-loco, Le chiese filiali di Abbasanta, Tipografia Ghilarzese, 1995, p. 15-19.
- Dora Carta Sanna, “Santa Amata o Santa Dorotea”, in Abbasanta, cit., pp. 251-254. 
- Lucio Pinna e Nina Dessì, “Chiese filiali”, in Abbasanta, cit., pp. 236, 237. 
- Angelo Quartu, Testimonianze della religiosità popolare in Abbasanta nella seconda metà dell'Ottocento, www.lulu.com, ID:1611243, pp. 267, 268. 
- G. Casalis, Dizionario geografico - storico - statistico - commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna: vedi la voce «ABBA-SANTA», cit.

[24] Altri punti importanti di approdo erano stabiliti nei siti più adatti lungo le coste della Sardegna e alcuni, abbastanza vicini al territorio abbasantese, come Tharros e l'insenatura di S'archittu (Cornus), erano collegati alla grande strada tramite diramazioni secondarie (diverticula) o piste utilizzate da greggi e armenti, lavoratori della terra, militari e commercianti.

[25] L'imperatore, infatti, mentre impediva loro di abbandonare i campi sino ad allora coltivati per potersi dedicare ad altre attività lavorative più proficue, li obbligava a versare pesanti imposte, anche in natura, calcolate sulla base dell'estensione e della qualità del fondo agricolo di loro pertinenza. Avvenne così che, impossibilitati a soddisfare le richieste e le imposizioni dello Stato e nel contempo a mantenere la famiglia, molti agricoltori preferirono vendere la propria terra ai latifondisti, mettendosi sotto la loro protezione e lavorando, nuovi servi, alle loro dipendenze.

[26] A Fordongianus è testimoniata la diffusione della fede anche tramite le iscrizioni funerarie relative alle sepolture dei cristiani Stefanus, Victor, Archelaus, Petrus, Honorius, Ingenua, Iuliana e Miccina. 

[27] Agli esperti il compito di verificarne l'autenticità.

[28Lo staurogramma, che risulta composto dalla sovrapposizione delle lettere greche Tau (T) e Rho (P), non era tuttavia il simbolo cristiano dei primi tempi maggiormente rappresentato: il cristogramma più familiare era costituito, infatti, sovrapponendo le lettere greche Chi (X) e Rho (P), che sono le prime due della parola greca Christos.

[29] Non si tratta, come già in precedenza accennato, dei primi luoghi di culto eretti sulla probabile tomba dei due santi. L'attuale chiesa di sant'Amada risale, infatti, al XVII secolo e quella di san Palmerio al XIII: entrambe sostitutive di altri edifici più antichi di cui al momento non si individuano resti significativi. Per quanto riguarda la chiesetta abbasantese, una ricerca archeologica da intraprendere attorno alla costruzione potrebbe, forse, offrire nuovi elementi di valutazione e conoscenza sulle iniziali forme di venerazione della martire. 

[30] [Della violenta distruzione del sacello sono] «... traccia i resti di materie carbonizzate provenienti dall'armatura del tetto, la sola cosa che potesse abbruciare in quel rude tempietto annidato tra le robuste murature del monumento primitivo. Sotto a questo strato di materie carbonizzate, in contatto immediato col pavimento ..., insieme a qualche frammento di lucerna fittile di tipo semplice si ebbero raccolte insieme alcune monete in bronzo, piccoli bronzi imperiali, le quali possono rappresentare le ultime offerte fatte al santuario ... Esse appartengono ai varî imperatori Diocleziano, Massimiano, Massenzio, Costantino I, Licinio II, Costantino II, Costante I, Costanzo II, Giuliano e Valente, abbracciando il periodo dal 284 al 378 d. C. 
E tali monete ..., fissando la data a cui perviene il santuario, ci offrono, con una certa approssimazione, anche quella in cui si affermò il trionfo delle idee e del culto cristiano, almeno in queste regioni ... ; avremo anche un'affermazione abbastanza notevole del modo violento con cui la lotta religiosa si è anche in questa regione effettuata ...» (Antonio Taramelli, «Il Nuraghe Lugherras presso Paulilatino», in Scavi e scoperte - 1903-1910, Carlo Delfino editore, Sardegna Archeologica, Reprints, pp. 493-495). 

[31] Il termine bretone menhir significa ‘pietra lunga’ e corrisponde all'espressione sarda perdalonga; quest'ultima è anche la denominazione abbasantese di un sito, cioè un toponimo, presente nel territorio, alla periferia del centro abitato, chiaramente sopravvissuto ad una monumentale pietra conficcata nel terreno ed ora non più rintracciabile.

[32] Il dies natalis coincide, per la religione cristiana, con il giorno della morte di ogni fedele: giorno, appunto, in cui si nasce a nuova vita in paradiso.